Una stroria del 1943
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- Categoria: Storia
- Pubblicato: Martedì, 20 Maggio 2003 12:35
- Scritto da Mario Sorrentino
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La macchia che si scorgeva ai piedi della pineta doveva essere la casetta antisismica della maestra Emini. Associai la casetta a quel nome e mi tornò tutto in mente. Tutto in ogni particolare anche minimo. Dovevo soltanto trovare un angolo tranquillo, sedermi a pensare e avrei potuto recuperare l’intera storia legata al ricordo della maestra. Avevo rivisto in un lampo la sua faccia, che era bella, più bella per noi di quella delle attrici che vedevamo sui cartelloni davanti al cinema. Era di Torino, la nostra maestra, ed era stata mandata al nostro paese per confino politico: una condizione che per noi suoi scolari non significava niente. Era una sorella maggiore, una zia buona, anche se diversi compagni se ne erano innamorati e le avevano promesso di sposarla, quando sarebbero stati grandi. Forse anch’io ne fui innamorato,
perché non avevo il coraggio di fissarla negli occhi, e mi intenerivo sino alle lacrime quando ci intonava le canzoni che voleva insegnarci. Davanti alla casetta com’era ora, un rudere disabitato, mi ritornarono in mente senza difficoltà quelle due o tre giornate d’autunno, le quali – come ho accertato controllando date importanti nella nostra storia – non potevano non essere state dell’anno 1943. Un anno in cui ero molto piccolo, cinque anni appena, per cui non so spiegare la mia presenza in una classe di seconda elementare all’inizio di questa storia. Oppure si trattava della prima elementare? Ma ci si poteva iscrivere alla prima elementare a cinque anni, a quell’epoca? E si coniugavano già i verbi in prima elementare? Perché la vicenda ruota attorno alla coniugazione di un verbo. Tutte domande a cui non ho saputo ancora rispondere. Comunque quella mattina d’autunno c’era un maestro nuovo nella nostra classe. Passeggiava a lunghi passi nel corridoio centrale tra i banchi. Aveva una voce tanto diversa da quella dolce, dalla pronuncia musicale, della nostra maestra torinese. Eravamo veramente atterriti da quel tipo che anziché parlarci in italiano, come faceva la nostra maestra, usava i toni più rozzi delle parole più grevi del nostro dialetto. Rideva spesso caricando la voce in un modo che solamente più tardi ho saputo classificare come sarcastico. Perché si comportava così? Forse, penso, era alle prese con aspetti della vita che, al confronto di quelli che preoccupavano noi cocchi di una maestrina settentrionale, amorevole e raffinata, uhm, sì che erano importanti… sì che erano… com’erano? Da più anni partivano i soldati per la guerra e i giovani dell’età del supplente stavano per cadere anche loro nella tramoggia che tanti altri giovani aveva già fatto scomparire, in posti che una volta in paese nemmeno si sapeva esistessero. Con l’arrivo del supplente era entrato qualcosa della guerra nella nostra classe. Ce ne stavamo immobili nei nostri banchi, con gli occhi bassi sui quaderni. Anziché mettersi a leggere un giornale, come facevano tutti i supplenti che si rispettavano, quello lì si mise in testa di interrogarci. Si appoggiò col sedere alla cattedra e, chiamandoci davanti a sé uno per uno, chiedeva il passato remoto del verbo ‘perdere’. Fu una operazione lenta e sistematica, come un rastrellamento, mi viene spontaneo di pensare adesso. Alunno dopo alunno, giunse sino al quartultimo di noi poveretti e aveva già punito tutti gli interrogati con cinque colpi di righello nel palmo della mano destra, sia che avessero risposto ‘perdei’ che ‘persi’ o ‘perdetti’. Ognuno degli interrogati era stato prima debitamente ingiuriato con dei termini veramente lusinghieri per lui e per la sua famiglia, e poi passato per le armi… pardon: righello e alla fine invitato a mettersi in fila tra i banchi dietro a chi per primo aveva risposto nel modo identico al proprio. Quando toccava al quartultimo, s’era seduto e se ne stava a guardarci con la faccia appoggiata sui pugni uniti. Pensavamo che fosse stanco, noi che restavamo per ultimi. Ma ecco che si alzò di nuovo, con il righello pronto in mano… Era tanta la paura aleggiante nell’aula che Lanza s’inventò ‘io perdui’. Un colpo di genio, perché al supplente era scappato da ridere e Lanza non fu punito. E tutti noi, vigliaccamente, ci mettemmo a ridere dietro alla risata da orco del supplente, il quale, sistemato Lanza sulla cattedra, venne verso gli ultimi rimasti da interrogare. Io, un altro maschio e una bambina. “Su, dividetevi voi stessi tra le tre file,” ci disse. “A meno che non preferiate stare sulla cattedra con Lanza.” E rise di nuovo in quel suo modo brutto. “Signor maestro,” disse a quel punto con voce tremante Parzanese, l’altro maschio del nostro terzetto, “tutti e tre.”
“Che cosa tutt’e tre?”
“Si può dire in tutti e tre i modi,” ripeté un po’ meno sicuro di prima Parzanese.
Allora il supplente, prima gli chiese di ripetere forte, che quei somari dei suoi compagni sentissero bene, poi si mise a urlare come un ossesso: “Ecco, ecco, ciucci che non siete altro, lo vedete che soltanto un figlio delle zolle, oneste sudate zolle, c’è arrivato? Voi cocchi di mamma rammolliti e figli di borghesi rammolliti potevate mai riuscirci? Eh, ditemelo un po’ voi?" e mise dieci sul registro a Parzanese, dopo averlo promosso sul campo capoclasse, al posto di Mazzoccoli caduto insieme agli altri con il suo ‘perdetti”.
Poi c’è un vuoto nel mio ricordo. Di certo so che presi anch’io i cinque colpi di righello. Li presi perché mi pare dicesse, a me e alla bambina che insieme a me era rimasta da interrogare, che per solidarietà con i nostri compagni dovevamo condividere la sorte dei perdenti, essendo ormai impossibile accertare che tipo di risposta gli avremmo scodellata, senza l’exploit di Parzanese.
Quando uscimmo dalla scuola, anziché disperderci come al solito come piccioni che escono a stormo dalla colombaia, andammo tutti mogi verso la piazza e ci lasciammo cadere sui gradini del monumento ai caduti. Alcuni ancora si soffiavano i palmi delle mani martoriate, altri le tenevano nascoste in tasca. Non avevamo molta voglia di parlare perché, come sempre succede in casi simili, sentivamo l'umiliazione subìta ingiustamente come una nostra colpa. Pure, dopo qualche sfogo a mezza voce, qualche parolaccia da confessare al parroco la domenica successiva, il capoclasse spodestato si riprese e mi ordinò di andare a riferire subito il fatto alla maestra.
Abitavo nella piazza stessa del monumento ai caduti, perciò era già da qualche minuto che avevo notato l’auto di mio padre parcheggiata davanti casa nostra con tutti gli sportelli aperti, e i miei indaffarati intorno a caricarla con varie cose. La macchina era l’unico mezzo di collegamento del paese con il mondo di fuori. Serviva anche per la posta e per il ricovero urgente degli ammalati negli ospedali giù in città. E meno che per la gita di Pasquetta o una visita a un santuario, mai nessuno della famiglia ci saliva. Ora, invece, la vedevo caricare da mia madre e da mia sorella con i più svariati oggetti di casa, mentre mio padre legava sul tetto i nostri materassi e grossi involti di panni.
Erano così indaffarati i miei familiari che non si accorsero minimamente di me, mentre entravo in casa, depositavo la cartella nell’angolo più vicino alla porta, mi rifornivo di una fetta enorme di pane e uscivo di nuovo in tutta fretta con destinazione casa della maestra. Avevo capito che quel giorno il pranzo – per quanto la cosa potesse sembrare inaudita - sarebbe stato con ogni probabilità saltato e che se volevo portare a compimento la missione ci sarei dovuto andare di corsa e senza chiedere permesso. Ma mia madre mi vide proprio mentre stavo già doppiando ventre a terra l’angolo del monumento ai caduti e mi chiamò. Dovevo correre dalla maestra per una cosa urgente di scuola, urlai. Mi guardò in quel suo modo infallibile per farmi ubbidire e tornai indietro. Ignorò stranamente che stavo scappando via senza permesso, e soltanto mi pregò che avessi pazienza se non pranzavamo, ma dovevamo ‘sfollare’ in tutta fretta in campagna da un nostro amico contadino (era la prima volta che sentivo dire quel termine, ma non chiesi spiegazioni per non perdere altro tempo). Comunque, se proprio dovevo andare dalla maestra, l’avvertissi anche che sarei mancato da scuola per qualche giorno.
Arrivai davanti alla casetta con l’affanno. La porta era aperta, perciò entrai senza bussare, come si faceva del resto normalmente in paese a quei tempi. La cucina era anche l’ingresso e da questa si entrava nell’unica stanza, che era soggiorno, stanza da letto e tutto. Ma rimasi fermo appena oltre la soglia d’ingresso perché vidi che la maestra stava parlando di là con un uomo. Erano uno di fronte all’altra, seduti ai due lati del tavolino sul quale altre volte l’avevo vista correggere i nostri compiti. La maestra mi vide e mi sorrise; anche lui si voltò. Era padre Giacomo, il guardiano del convento dei frati minori. Era vestito da soldato. Più tardi imparai che la sua era una divisa di cappellano dell’esercito. Allora capii soltanto che avrei dovuto riferire in fretta alla maestra quello che ci era capitato e andarmene. La maestra mi invitò ad entrare, mi offrì alcuni riquadri di una cioccolata già scartata sul tavolo. Me li avvolse nella carta stagnola. Però rimanevo con le braccia stese lungo i fianchi e non riuscivo a parlare. Sentivo una voglia improvvisa di piangere. Avevo udito le ultime parole del frate. Sarebbe partito anche lui per Torino, avrebbe fatto da padre a un certo bambino. “A tuo figlio”, aveva detto, per la precisione, anche se la maestra non aveva figli, né era sposata. La maestra mi guardava con espressione preoccupata, ma non riuscivo a parlare. Mi aprì il palmo della mano per farmi accettare la cioccolata e scoprì il gonfiore della battitura. Come se capisse al volo, scambiò con il frate uno sguardo in cui lessi la compassione. Quello sguardo mi fece sciogliere in lacrime. Forse perché misurai negli occhi della maestra l’immensità della sventura patita da me povero bambino abbandonato dalla più amorevole delle maestre, da me e da tutti noi poveri innocenti lasciati alla mercé di un violento. Le tentarono tutte per calmarmi, ma io sembravo proprio inconsolabile. Allora lei mi attirò a sé e mi abbracciò. Dopo che mi ebbe tenuto stretto a sé per un po’, lentamente mi calmai – ricordo come fosse ora il suo profumo e la morbidezza delle sue braccia - e finalmente riuscii a raccontare, tra i singhiozzi che si diradavano, quello che ci era successo. Padre Giacomo, imparai più tardi, era tornato da poco dalla Libia, dov’era riuscito a sfuggire alla cattura da parte degli inglesi, dopo la sconfitta delle truppe italiane e tedesche a Al Alamein. L’esperienza della guerra, la vita di soldato tra soldati, e ora la sensazione nuovissima del fascino esercitato sulle donne del paese – per la divisa o per altro – lontano dalle brutture dei combattimenti e dalle caserme, l’avevano scagliato nella dimensione di uomo giovane in mezzo a giovani , in un mondo in cui tutti sentivano di star per rinascere a vita nuova, in un mondo che stava cambiando radicalmente. Un ufficiale cappellano passato attraverso la forgia della guerra non poteva certo tornare alla vita di solitudine e di preghiera del tempo di pace, in un convento sperduto sui monti; non poteva far finta di niente se una giovane donna di una città emancipata del nord, anche se dai trascorsi marxisti, lo guardava con occhi accesi, come del resto facevano tutte le altre borghesi del paese sprovviste di uomini, ma donne queste che, rispetto a lei cittadina, oh, quanto più grigie e incapaci di entusiasmo per le nuove idee e le nuove libertà. Inoltre, il gusto della disputa intellettuale cresciuto negli incontri e nei confronti con uomini di altre fedi, o, addirittura, privi di fede, lo scricchiolio delle certezze dei fini oltremondani, dopo tanti massacri e crudeltà, gli mettevano una voglia di urlare anche in quella valle chiusa verso i quattro punti cardinali che oltre l’orizzonte c’era un mondo orribile ma grande, pericoloso ma bello, doloroso ma ricco di promesse. E le promesse bisognava afferrarle, farle proprie agendo, rompendo tutti gli schemi che avevano permesso il lungo sonno dell’anteguerra. Quando sbucai di nuovo sulla piazza, vidi dei soldati tedeschi davanti alla caserma dei carabinieri. Erano tre, due con l’elmetto e il terzo con il berretto da ufficiale, giunti evidentemente con quella motocicletta con il ‘sidecar’ che era parcheggiata proprio davanti al monumento ai caduti. Uno dei soldati reggeva sottobraccio un pacco di manifesti gialli arrotolati. Tutti sapevamo, compreso noi bambini, che i manifesti dei tedeschi, di qualsiasi colore fossero, annunciavano sempre guai. Feci un giro largo per evitare quella brutta gente e mi avvicinai alla nostra macchina. Non c’era però nessuno fuori o dentro casa mia, come del resto non c’era nessuno nella piazza. Una faccia apparve e scomparve da una finestra; mi sembrò anche che qualcuno mi chiamasse sottovoce da dietro una porta accostata. L’ufficiale tedesco si rassettò la giacca e raddrizzò la cintura. Io intanto mi chiedevo dove fossero andati a nascondersi i miei, mentre chiudevo gli sportelli della nostra macchina. Uno dei soldati s’era avvicinato alla caserma, aveva dato dei colpi di picchiotto sulla porta e subito era tornato accanto agli altri. Si affacciò dal balcone centrale il maresciallo. Stava indossando la camicia. Vedendo i tedeschi, rientrò subito. Dopo qualche attimo apparve sulla soglia d’ingresso con il cinturone in una mano, mentre con l’altra finiva di infilarsi la camicia nei pantaloni. Finì di allacciarsi il cinturone senza fretta, mentre si avvicinava ai soldati.
L’ufficiale gli urla qualcosa. Il maresciallo scuote la testa e allarga le braccia per dire che non capisce. Allora l’altro comincia a urlare in italiano che deve consegnargli immediatamente la pistola. Il maresciallo apre il fodero ed estrae la pistola. La soppesa nel palmo aperto e fa per porgerla al tedesco, ma, a metà del gesto si arresta, raddrizza fulmineo l’arma e gli spara in piena faccia. Un rumore come di un asse che cada di piatto su un pavimento. Sfuggì al soldato il rotolo dei manifesti e questi si squadernarono per terra. Il compagno gli fece un cenno con la testa e dopo neanche un attimo erano già scomparsi dalla piazza loro e la loro motocicletta. Il maresciallo Nastro restava fermo, con le braccia stese lungo il corpo e la pistola ancora in mano a contemplare il morto. Oltre a lui e a me, sembrava che non ci fosse rimasto nessun altro nella piazza. Nel silenzio giungevano gli scoppiettii della motocicletta, già arrivata all’altezza del convento. Altri attimi e saltarono fuori dal bar come tanti spiritati i giovani del paese, con alla loro testa mio fratello. Mio fratello aveva attorno al braccio la fascia di carabiniere ausiliario. Il maresciallo non rispondeva ai giovani che gli chiedevano che fare. Poi due di loro presero il tedesco per i piedi e cominciarono a trascinarlo verso un vicolo che separava la caserma dall’orto della casa accanto. La testa del morto lasciava sui bàsoli di lava una striscia di sangue, che subito altri giovani cominciarono a coprire con manciate di terra. Mi sentii afferrare per le spalle e trascinare via: era mia madre riapparsa dal nulla. Mia sorella era già in macchina e mio padre mise in moto. Nel fare il giro per uscire dalla piazza, mio padre si affiancò ai ragazzi, e prese a bombardarli di raccomandazioni, secondo la sua abitudine di dare consigli a tutti e su tutto. Mia madre cercava con lo sguardo mio fratello, ma stavamo giù uscendo dalla piazza e passavamo tra due file di gente che lasciava il paese con sulle spalle o su carretti e carriole i loro bagagli improvvisati: pacchi legati con lo spago, materassi , padelle, secchi, specchi e persino ritratti dei morti di famiglia. Dopo pochi minuti avevamo imboccato la strada sterrata di Corsano e ai lati dei finestrini si alzavano due bianche ali di polvere. “Vogliono correre dietro ai due tedeschi con la Gilera del maresciallo, “disse con tono di disapprovazione mio padre. “Ragazzini che nemmeno ascoltano. Tuo figlio, poi, crede che sia un disonore ascoltare suo padre…"
“Allora l’hai visto?”
“No che non l’ho visto. Ma è lui che fa sempre il capintesta…” Mia madre disse soltanto: “Gesu!”, stringendomi a sé. Mia sorella si mise a piangere. La macchina traballava sul fondo sassoso della strada. Una strada che avevo solamente percorso a piedi quando si andava alla cappella della Madonna, alla fine di maggio. Dopo pochi chilometri mio padre fermò la macchina accanto a un uomo fermo ad aspettare sulla strada. Era Pompilio, il contadino amico di famiglia che ci avrebbe ospitati in campagna. Subito rimosse la chiusura di frasche intrecciate che nascondevano l’imbocco nella siepe del sentiero che portava al suo campo, poi salì sulla staffa e, via, ripartimmo giù per una discesa da spavento. Pompilio, così alto sulla staffa, mi sembrava un gigante. Mi sorrideva e io lo invidiavo per la sua prodezza. La macchina traballava a ogni gobba o buca del viottolo, con le ruote a malapena entro il ciglio verso valle, mentre la montagna di masserizie sul tetto oscillava in ogni direzione minacciando di volare via. Arrivammo come Dio volle su un aia circondata da tre casette di fango e paglia. Nella casetta più grande ci saremmo sistemati noi. Pompilio, che era vedovo, stava nella più piccola. Del figlio, che era andato in Russia, sapeva soltanto che era tornato in paese, ma dove stesse nascosto o che se ne facesse non sapeva. Io assistevo alle operazioni di scarico delle nostre masserizie e alla preparazione dei letti sopra sacconi pieni di paglia e cercavo di capire per quale motivo fossimo ora degli sfollati. Mi pareva che la nostra situazione somigliasse un po’ a quella di confino della maestra. I grandi erano molto preoccupati. Era però per me l’avventura. Stava cominciando un vacanza strana senza compiti di nessun genere da fare. Avevo perso la maestra, ma ero anche sfuggito al supplente. Del resto, mia madre aveva ricostruito nel capanno di creta e paglia tutte le comodità di casa e io, in più, avevo a disposizione tutto il podere di Pompilio per le mie esplorazioni. La macchina sparì durante una mia assenza. E quando capii che era stata nascosta sotto un grande mucchio di fieno capii anche che dovevo far finta di non saperlo. Un pomeriggio, quando il sole era ancora alto sull’orizzonte, i grandi decisero che mio padre e Pompilio sarebbero andati a cercare notizie in paese. Chiesi che mi portassero con loro. Pompilio l’avrebbe fatto volentieri, persino mio padre avrebbe ceduto, se mia madre non avesse emesso un profondo sospiro di compassione per la stupidità degli uomini, alzando nel frattempo gli occhi al cielo. Andai soltanto ad accompagnarli sino alla strada maestra, e me ne tornai indietro tagliando direttamente per il campo arato e tirandomi dietro un'enorme branca secca che avevo strappato dalla siepe. Scendevo verso le casette che, per la ripidezza del terreno, vedevo laggiù ai miei piedi, mentre dietro di me la branca che trascinavo sulle zolle sollevava un enorme polverone rossastro. Mia sorella che stava di vedetta ad aspettarmi non capì che ero io la causa del polverone e cominciò a risalire il viottolo, che passava lontano da me, per andare alla mia ricerca. La vidi entrare nella macchia del querceto, ma non la chiamai. Alla fine del campo arato trovai un ripiano ricoperto di rovi e ulivi selvatici, contro una parete di arenaria. Mi accorsi che i rovi erano legati a fascine e ammucchiati contro la parete. La curiosità mi spinse a studiare quella situazione. Mi infilai tra la rupe e i rovi e strisciando sotto di questi, dopo qualche metro, mi ritrovai all’ingresso di una grotta. Dall’imbocco di questa iniziava un cunicolo scavato dall’uomo che terminava con una porta di assi mal connesse. Attraverso le fessure si vedevano delle casse strette e lunghe; e si sentiva un forte odore di tabacco. Sentii però in quel momento il rumore delle fascine che venivano spostate. A lato della porta si apriva un altro cunicolo più basso del principale. Allora mi ci infilai abbassandomi carponi e mi allontanai sino a trovare il buio. Da lì vidi entrare, non potreste immaginarlo, il supplente, che reggeva un’estremità di una cassa simile a quelle che avevo viste oltre la porta sconnessa. All’altro capo della casa comparve un attimo dopo un giovane contadino che portava anche una cartucciera a tracolla. Poco dopo uscirono di nuovo e riapparvero con un’altra cassa dello stesso tipo e dimensioni. Poi sentii che aprivano la porta chiusa con il chiavistello. Io avanzai sino all’imbocco del mio cunicolo e vidi che avevano aperto il coperchio di una delle casse e ne tiravano fuori dei mitra, o fucili mitragliatori che fossero ai miei occhi inesperti. Ma la cassa, che era stata messa di traverso all’altra, cadde al suolo e il contadino si mise a bestemmiare. Uno spigolo gli era caduto sul piede. Io approfittai di quel trambusto e con un salto fui all’ingresso e da lì di nuovo all’aria aperta.Sull’aia c’era diversa gente del paese. In mezzo a loro una figura che mi fece battere il cuore: la maestra Emini. Portava stranamente uno zaino; e anche quegli altri che stavano con lei avevano degli zaini e delle valigie. Il piacere di avere ritrovata la mia maestra fu subito rovinato da mia sorella. Appena mi vide cominciò a strillare. Diceva che l’avevo fatto apposta a nascondermi da qualche parte, mentre lei già pensava che fossi caduto in qualche fosso o che mi avesse morsicato un vipera. Ma nessuno faceva caso a mia sorella. La maestra mi prese per mano e cominciò a raccontare a mia madre quello che ci aveva fatto il supplente. Mia madre mi aprì il palmo e io mi misi a piangere. Io stesso non sapevo perché. Scende giù per il viottolo il giovane contadino intravisto da Alfonso nella grotta. Zoppica e si tira dietro un mulo su cui ballonzola il basto vuoto. Alfonso è con la madre. Quando il bambino vede il giovane, ha un sobbalzo che non sfugge a sua madre, che per rassicurarlo gli dice che è Rocco, il figlio di Pompilio.Nella casetta più grande i paesani venuti con gli zaini ora stanno intorno al fuoco acceso nel camino d’argilla. Parlano a voce alta, ma si interrompono quando nel vano della porta si staglia la figura di Rocco. Pompilio gli dice semplicemente: “Ah, sei qua…”
Il giovane si guarda intorno e con voce scocciata dice al padre: “Che hai messo l’albergo che ti metti in casa tutta ‘sta gente?”
Prima che qualcuno risponda, Pompilio si alza e accompagna fuori il figlio. Da dentro li vedono parlare animatamente, nere sagome contro il cielo rosso. Ma entra nel quadro un’altra sagoma provvista di zaino: Padre Giacomo, vestito in borghese, appena arrivato dal paese. Esce anche la maestra e le sagome contro il cielo al tramonto diventano quattro. Dentro riprendono a parlare e a mangiare castagne arrostite. Alfonso appoggia la testa sulle ginocchia della madre, mentre pensa ai suoi compagni, e a dove potranno essere in quel momento. Ricordo che guardavo verso il fiume quando vidi una fila di camion, motociclette e gente a piedi che passavano il ponte e imboccavano la strada che saliva sulla montagna di fronte. Sentivo il rumore dei motori, ma fiochi per la distanza. Dopo i camion la gente a piedi riempì tutto il ponte e, chissà come, capii che erano soldati: Forse perché facevano una macchia dello stesso colore. Un aereo piccolo come quello che vedevamo certe volte di sera, stava facendo dei giri sopra la colonna. Ma intorno a quell’aereo si gonfiavano tanti palloncini bianchi, nuvolette di fumo bianco che subito si sfilacciavano. E dopo cominciarono a sentirsi dei botti come quelli per la festa del santo.
“La contraerea dei tedeschi,” disse mio padre. Arriva la sera e la maestra e gli altri compaesani venuti nel pomeriggio stanno ancora al podere. La mamma di Alfonso ha preparato da mangiare per tutti e tutti, chi seduto sugli sgabelli, chi in piedi o seduti sul letto, mangiano in silenzio. Pompilio versa da bere il suo vino da una caraffa di creta. Ma le facce di tutti sono serie, soltanto Rocco sembra contento per qualche motivo suo. Anche gli altri venuti con gli zaini sono confinati politici come la maestra e vogliono tornare alle loro città, seguendo le truppe americane che non dovrebbero tardare a venire, visto che i tedeschi stanno scappando. Poi un bresciano si mette a cantare una canzone nel dialetto delle sue parti. Anche gli altri diventano allegri e dopo un po’ tutti cantano in coro una canzone di montagna. Si parla anche degli itinerari da seguire per andare a nord. Qualcuno chiede a Padre Giacomo dove va lui, invece. Soltanto sino al capoluogo, a parlare con il provinciale dell’ordine, dice il frate e sembra imbarazzato. La maestra prende Alfonso per mano e lo porta sull’aia. Il chiarore delle stelle piove sulla valle eliminando ogni sporgenza e colore. Alfonso però guarda in alto e chiede, come se sentisse la nostalgia della scuola, qual è il piccolo e quale il grande carro. Lei alza il braccio a indicarli e Alfonso dietro a lei, anche se crede che a indicare le stelle crescano i porri sulle dita. Lei ride e gli chiede se risponderà alle sue lettere. Sta per partire per un lungo viaggio, un viaggio tutto a piedi o con chissà quali mezzi di fortuna, se ne troveranno. Ma già dalla prima città gli scriverà, e così farà da tutti i posti che attraverserà prima di arrivare a casa, a Torino.
Dopo un lungo silenzio, Alfonso le dice che non vuole più andare a scuola. Se lei non sarà più la loro maestra lui non vuole andarci più, a quella scuola.
“Se è per il supplente puoi stare tranquillo, potete stare tranquilli, tu e i tuoi compagni…” Gli accarezza i capelli. Ha già scritto una lettera al direttore della scuola, continua lei, mentre guarda in direzione della casetta da dove stanno uscendo i confinati. Ha scritto anche al provveditore. Faranno senz’altro un’inchiesta perché quello che è successo è molto grave. Perciò egli e i compagni dovranno raccontare tutto, senza aver paura del supplente. “Che cos’è un’inchiesta?” chiede Alfonso. Ma non ascolta la spiegazione. La guarda negli occhi, lui che non aveva mai avuto il coraggio di farlo prima, e le dice che i più grandi a scuola raccontano brutte cose: dicono che lei e padre Giacomo fanno l’amore.
La maestra gli si inginocchia accanto e resta a lungo in silenzio. Come se pregasse o piangesse senza lacrime. Poi sottovoce gli dice che non bisogna avere paura dell’amore; nel paese hanno paura dell’amore, perciò pensano che sia una cosa brutta. Sono tutti usciti sull’aia i confinati, scherzano, mentre ciascuno cerca il proprio zaino nel mucchio intorno alla pianta di gelso. Padre Giacomo si avvicina portando appeso per le cinghie quello della maestra. Lei bacia sulla fronte Alfonso e s’avvia dietro agli altri. Le sagome dei confinati si vedono per un po’ biancheggiare al di sopra del profilo delle montagne. Diventano sempre più piccole, finché non scompaiono nella luce irreale della notte stellata. A letto nel capanno, Alfonso ha gli occhi spalancati nel buio. Dietro la porta una forma nera interrompe la luce esterna che filtra tra le assi mal connesse. Allora Alfonso si alza a sedere e vede una faccia che ride. Si volta verso il letto grande dei genitori, ma lì non c’è nessuno. Le voci dei familiari arrivano da fuori, mentre attraverso le strisce della porta si accende e spegne una forte luce, e poi ancora un lampo, mentre si sentono scoppi fortissimi che fanno tremare il letto. L’uomo nero dietro la porta è un cappotto appeso. Sono tutti nell’aia, mezzi nudi e infreddoliti. Alfonso si stringe a sua madre, ma non ha più paura, dopo la scoperta del cappotto. E non ha paura anche perché lo spettacolo che si vede in fondo alla valle gli piace moltissimo. Salgono dal fiume le strisce chiare dei bengala, sino a scoppiare in alto, con larghe cupole che illuminano a giorno valle e montagne. L’orizzonte sembra pulsare a ogni razzo e il fumo che sale dal fiume gonfiarsi e sbiancare come una matassa di bambagia mentre sale nel cielo. Intorno al ponte della ferrovia però gli scoppi si accendono di rosso e di verde. “Povera gente,” dice la madre di Alfonso, “si sono andati a cacciare giusto in mezzo all’inferno.” Il padre invece dice che senz’altro sono riusciti ad attraversare il fiume e la ferrovia prima del bombardamento. Alfonso capisce che i grandi parlano dei confinati e che il ponte che appare e scompare alla luce dei bengala è quello della ferrovia. Poi i ricordi diventano meno chiari, fuorché una cosa che poi dirò. Quanto ai tedeschi, non fecero nessuna vendetta perché pensarono soltanto a scappare. Venne in campagna mio fratello e fu presa la decisione di tornare al paese e aspettare lì l’arrivo degli americani. Mio fratello era andato incontro alle colonne che risalivano il passo degli Appennini, con la Gilera del maresciallo. Era ormai diventata come sua e se l’era portata in campagna. Detti anch’io una mano a togliere il fieno dalla nostra macchina e la mamma fece di nuovo i bagagli. Prima di partire, mio fratello mi portò a fare un giro sulla motocicletta. Saliva per il sentiero a tutta velocità e io seduto dietro sul sellino più alto. La moto slittava nella sabbia, delle volte, e si metteva a girare in tondo, ma mio fratello allungava una gamba per terra e si ripartiva più forte di prima, in mezzo a un polverone che avranno visto persino dai paesi sulla montagna di fronte. Di colpo arrivammo davanti alle frasche che chiudevano la grotta.
E lì davanti c’era un mulo carico e c’era il maresciallo Nastro che tentava di tenerlo fermo per la briglia.
Tento di ricostruire il dialogo tra il maresciallo e mio fratello. Certo, le parole non sono proprie quelle che i due si scambiarono, ma più o meno poterono essere queste.
“Avete sentito gli spari?” chiese il maresciallo.
“No,” fece mio fratello.”
“Finché non me l’aggiusti, quella marmitta, che vuoi sentire?…”
“Se volete una mano per scaricare, sono qua “.
“Certo che voglio. Questo carico l’hanno portato qui due signori che ora saranno arrivati già al fiume, tanto sono scappati veloci quando gli ho fatto la sorpresa di comparirgli davanti…”
“Due signori?”
“Sì, due signori: Pompilio il contrabbandiere e quel maestro che fa il supplente Due bei soggetti che ti raccomando…”
“Pompilio? Come può essere? Pompilio non è contrabbandiere…E poi l’ho visto alle casette. Lo sapete che ospita la mia famiglia…”
“No, il figlio, volevo dire…”
Ma mentre scioglievano una cassa, quella sul fianco opposto si sfilò dalle imbracature e cadde a terra con grande fracasso. L’aprirono. E io mi spaventai perché vidi un morto nella cassa, un soldato morto in un sacco trasparente, che poi mi dissero era di cellofan.
“Mamma mia!” fece mio fratello e voleva farmi girare gli occhi da un’altra parte.
“’Sti disgraziati, ma tu guarda che ti vanno a rubare… pure i morti, ora…”
“E dove, poi?
“Da una tradotta, come le altre volte. Quando il treno rallenta alla salita di Pianerottolo, loro saltano sui carri e buttano tutto giù per la scarpata. Solo che mo’, invece di armi, hanno scaricato morti, poveri morti. Questo, e forse un altro nella seconda cassa, saranno morti nello sbarco, a Salerno.”
“Che ne facciamo, marescià?”
“E che ne dobbiamo fare? Li consegneremo agli americani quando arrivano. Stanno arrivando gli americani, perciò i tedeschi hanno fatto saltare il ponte…”
“Dunque erano il figlio di Pompilio e il supplente, “riassunse mio fratello. “Ma che c’entra il supplente fascista con il contrabbandiere comunista…”
“Forse comunista non è, ma vende i fucili mitragliatori ai comunisti. E il supplente è il solito piccolo Giuda di ogni storia nostra…”
Il pomeriggio tardi di quello stesso giorno, o forse del giorno appresso, mentre tornavamo con la macchia si può dire più carica che all’andata, perché Pompilio ci aveva riforniti di frutta, ortaggi e altro, ci saltò davanti al paraurti, e per poco mio padre non la metteva sotto, una donna vestita da uomo, con la faccia tutta sporca, forse di fumo o chissà di che altro. Una donna che solo io riconobbi immediatamente.
“Signorina maestra!” urlai.
La facemmo sedere dietro con noi e mentre tornavamo al paese lei raccontò che gli altri erano morti. Li avevano mitragliati chissà se i tedeschi o qualche pattuglia americana dell’avanguardia quando il loro gruppetto stava guadando le pozze d’acqua del fiume in secca.
“Allora ci insegnerete ancora voi?” domandai io.
Lei mi fece una carezza, mi ricordo, e mi disse: “Lo sai che è morto Padre Giacomo?” Non so perché lo disse solo a me e sussurrandomelo all’orecchio. Quando arrivammo alle prime case, ci dovemmo fermare perché passavano gli americani, con camion e carri armati. E tanta gente anche di altri paesi seguiva la colonna. Una folla che per poco non andava a finire sotto i cingoli o sotto le ruote per fare festa ai soldati. E tanti bambini s’infilavano tra le gambe dei grandi, salivano sui pali della luce per vedere meglio, venivano tirati sui carri dai soldati. Anche due della mia classe vidi appesi alle braccia degli americani, mentre masticavano con grandi smorfie quella che poi imparammo a chiamare ceiungam. Scesi pure io dalla macchina e raggiunsi i compagni che marciavano insieme alla banda, che era quasi tutta composta di enormi soldati neri. Marciavano a passo di danza i soldati suonatori e noi cercavamo di imitarli, stregati come i topi del pifferaio dal flauto magico. Nella piazza i primi camion fecero cerchio intorno al monumento ai caduti dell’altra guerra e la banda si fermò, ma continuando a suonare. Non erano le solite marce della festa del patrono. Altra musica, una musica che faceva battere i piedi persino ai vecchi. I suonatori neri ondeggiavano come un corpo solo anticipando il ritmo, e certuni di loro facevano la piroetta, roteando le trombe in alto, a braccia tese.Dal balcone di una casa sventolavano una bandiera. Era il supplente che chissà dove ne aveva trovata una a stelle e strisce Urlava: “Compañeros americanos”, in spagnolo… Ma che c’entrava lo spagnolo?