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Arturo De Cillis
Quando i Borbone ordinavano:Prefazione

 Il nostro maggiore scrittore storico, Giacinto de Sivo, nel commemorare i caduti delle battaglie sul Voturno e sul Garigliano, così si rivolgeva ai Napolitani che si erano recati a Roma e che preferivano vivere in quella città in miseria, piuttosto che rimanere nella loro Patria invasa dai Piemontesi (in quegli anni, tra il 1861 e il 1862, infatti, furono circa 48.000 gli incarcerati per “motivi politici” nella sola Napoli): «La Patria nostra, della quale siam lontani esuli e raminghi, era buona e bella, era il sorriso del Signore. La Provvidenza la faceva abbondante e prosperosa, lieta e tranquilla, gaia e bella, aveva leggi sapienti, morigerati costumi e pienezza di vita, aveva esercito, flotta, strade, industrie, opifici, templi e regge meravigliose, aveva un sovrano nato napolitano e dal cuore napolitano. Ma fatale era tanta prosperità, l’invidia, l’ateismo e l’ambizione congiurarono assieme per abbatterla e spogliarla. Calunnie e corruzioni, un lento decennale lavoro prepararono l’opera e tutto ciò spaventerà un giorno l’imparziale posterità». Queste parole, scritte proprio nei giorni in cui più violenta si compiva l’azione repressiva delle truppe piemontesi, rispecchiano la verità di quella che fu una vera e propria conquista militare da parte di uno staterello che, essendo praticamente sull’orlo del fallimento, non aveva altra scelta che aggredire gli altri Stati della peni sola italiana per rimpinguare le proprie casse quasi vuote. Il barbaro Piemonte, per attuare il suo piano di conquista, usò tutte le armi di cui poteva disporre, soprattutto le menzogne. Incominciò a vendersi la Savoia e Nizza ai francesi per pagarsi le spese di guerra e per giustificare queste aggressioni le chiamò “d’indipendenza” accusando gli austriaci di essere degli “oppressori” e mostrando un evidente disprezzo per il diritto dei popoli. Attraverso la corruzione sistematica e utilizzando dei sovversivi prezzolati, il Savoia di turno fece suscitare dei moti rivoluzionari negli altri Stati preunitari allo scopo di giustificare le successive invasioni per “ristabilire l’ordine”.

La menzogna era in ogni caso usata a piene mani attraverso la numerosa stampa di giornali, di volantini e con l’uso di agenti provocatori (in genere carabinieri in borghese), che propalavano le più vili falsità sui Sovrani regnanti, particolarmente sui Borbone, il tutto condito dalle frasi suggestive di “unità d’Italia” e “risorgimento “. Ma questo cosiddetto “risorgimento”si riferiva al solo Piemonte, il quale ebbe come obiettivo primario le casse degli altri Stati preunitari che furono derubati di tutto. I Borbone furono derubati dai Savoia anche del loro patrimonio personale, che a tutt’oggi non è stato mai restituito. Subito dopo la conquista della penisola il Piemonte iniziò una sistematica campagna denigratoria, che fu veramente diabolica, tanto che ancora ai nostri giorni se ne vedono gli effetti. Furono diffuse incessantemente menzogne non solo sulla dinastia borbonica, ma anche sulle usanze, sui costumi, sulla religione dei “meridionali”, ora non più Napolitani o Siciliani. Incominciarono con imporre sui libri di scuola la loro verità e insegnarono ai “meridionali” a vergognarsi di sé stessi. Nacquero così i meridionali imbroglioni, furbi, ridicoli e fannulloni; nacquero anche le tipiche frasi dispregiative come “amministrazione borbonica” ed altre che sono diventate patrimonio genetico delle successive generazioni. Una di queste menzogne, ripeto appositamente create, fu quella di “facite ammuina” che Arturo De Cillis con approfondito esame chiarisce, facendone risaltare l’evidente falsità. Purtroppo tutte queste menzogne, ben a conoscenza dei politici italiani, non vengono mai smentite e sui testi scolastici vengono ancora ufficialmente insegnate. Questo non può che far dedurre che ancora oggi lo Stato “italiano”non è che la continuazione di quello piemontese e non è certamente “italiano” cioè non è lo Stato di tutto il popolo italiano, altrimenti questo inganno non verrebbe così perfidamente perpetuato. Perché, dunque, si continuano a propalare queste menzogne? Generalmente si dice una menzogna per coprire qualcosa di attuale: che senso ha, quindi, continuare a mentire su avvenimenti di circa 140 anni fa ? Evidentemente per coprire il fatto che il Sud deve continuare ad essere una colonia interna, usata per fornire mano d’opera a basso costo, per concedere appalti agli “amici degli amici”e per far ottenere voti a quei politici meridionali ascari di questo sistema di governo che solo così può continuare a imporre il proprio  potere su noi tutti.

Roma, maggio 2000

Antonio Pagano Direttore di “Nazione Napoletana”

 

Per non far torto all’obiettività della ricostruzione storica degli eventi che hanno preparato, realizzato e seguito l’unità d’Italia, il sacrosanto processo di “revisione” in atto dovrebbe investire non soltanto vicende e personaggi ai quali viene comunemente attribuita una oggettiva rilevanza ma estendersi anche a profili che, pur apparentemente secondari, hanno tuttavia contribuito notevolmente all’affermazione di idee, di posizioni e di schieramenti. All’osservatore che intenda procedere ad un’analisi attenta e rigorosa non può sfuggire, infatti, che il processo di italianizzazione coatta delle popolazioni del Regno delle Due Sicilie è stato gestito da una accorta e raffinata regia, ispirata ad una strategia di altissimo livello. Ne è derivata la coerente, visibile e diffusa concretizzazione dell’obiettivo subdolamente configurato: rimuovere dalla coscienza comune ideali e valori ai quali intere generazioni si erano ispirate per secoli o, nel migliore dei casi. instillare il dubbio sulla bontà di un patrimonio ideale e culturale accumulato negli anni e strenuamente difeso da insidie e chimere di sapore pseudo rivoluzionario. Tale processo si è dipanato attraverso due direttrici princicipali che, pur nella loro autonoma esplicazione, sono state abilmente ricondotte a sintesi nel perverso obiettivo comune strenuamente perseguito dai conquistatori. Da un lato, infatti, si è assistito all’esaltazione di personaggi, vicende e progetti indissolubilmente legati al nuovo regime, alimentando una sorta di spudorata agiografia  che  ha finito per radicare la convinzione che le popolazioni meridionali potessero coltivare idee, culture e sensibilità comuni a chi si esprimeva in lingua francese e considerava il Meridione nient’altro che una coerente propaggine dell’Africa nera e selvaggia.

Dall’altro, in forme più subdole , talvolta artificiosamente raffinate talaltra palesemente rozze, piemontesi e giacobini, della prima e dell’ultima ora , hanno orientato le loro energie verso una martellante azione di denigrazione dell’ancien regime, condotta con tanta pervicace strumentalità da  coinvolgere qualsiasi aspetto, materiale o ideale, che fosse ad esso riconducibile. E soprattutto in questo secondo filone del processo dli conquista che  i sacerdoti dell’Unità hanno offerto il meglio che potesse attendersi da coscienze tristemente sacrificate sull’altare dell’albagia di potere. In tale direzione, del testo, il vincitore, in qualsiasi contesto storico o geografico. trova facile gioco, agevolato dalla conquista di posizioni di potere che, al di là dei tangibili effetti materiali, producono l’inevitabile asservimento delle coscienze di chi, rinunziando alla propria identità, è destinato paradossalmente ad essere un “vinto” anche nei contesti più favorevoli, quelli cioè nei quali potrebbe teoricaménte assurgere a protagonista.

 Ma vi è un’altra ragione, probabilmente più pregnante, che induce i vincitori a battere con impegno la strada della denigrazione degli sconfitti. Si tratta, molto semplicemente, dell’opportunità. che essi colgono fin dal momento dell’assunzione del potere materiale, di circoscrivere l’attenzione e la sensibilità comuni alle carenze, vere o presunte, delle strutture preesistenti, al fine di distoglierle dalle inevitabili deficienze ed imperfezioni che sempre accompagnano l’alba di nuove esperienze. Se quanto finora descritto può essere assunto a pacifico principio generale, non può non essere considerato come l’applicazione che di esso hanno fatto i corifei dell’unità abbia raggiunto livelli di spietata determinazione, a conferma dell’importanza attribuita alla conquista “culturale” prima ancora che a quella militare e politica. In quest’opera di distruzione dell’identità delle popolazioni meridionali, l’orda unitaria, non paga dei massacri perpetrati a danno delle popolazioni inermi che rivendicavano soltanto il diritto alla libertà ed alla conservazione della propria soggettività storica e culturale, non ha certo usato il fioretto. Tuttavia, nonostante l’oggettiva rozzezza delle iniziative dirette a questo scopo riuscita a diffondere convincimenti che ancora oggi si esprimono attraverso accezioni o riferimenti terminologia entrati a far parte del linguaggio comune. Tralasciando il riferimento all’uso dispregiativo del termine “borbonico”, utilizzato per definire strutture o sistemi organizzativi obsoleti e farraginosi e non intendendo approfondire altre due “perle” della tipologia frasi ad effetto collegate ad intenti stupidamente denigratori (ci si riferisce, segnatamente, all’esortazione Facite a faccia feroce!, che sarebbe stata rivolta da Francesco II ai valorosi difensori della cittadella di Gaeta, non che al motto Festa, farina e forca, che avrebbe ispirato il modus regnandi dei Borboni di Napoli), ci si limiterà in questa sede a soffermarsi sul tristemente noto proclama “Facile ammuina!”

Si tratta , come è noto ai più  del testo di una pittoresca esortazione di stampo goliardico-marinaresco che, riprodotto in tutte le forme grafiche e cartolari possibili (e di recente approdato in forma solenne anche su alcuni siti Internet!), continua ad essere diffuso ed evocato ad ogni pié sospinto ogniqualvolta si assuma a punto di riferimento di un qualsiasi ragionamento l’idea della disorganizzazione, dell’improvvisazione e del disordine più o meno goliardico Nemmeno il Parlamento italiano è rimasto immune dal fascino del richiamo, che dovrà sicura mente apparire tanto convincente e significativo. (Vedi ad esempio, per limitarsi a riferimenti apparsi in tempi recenti. L’artico di SEBASTIANO MESSINA pubblicato su la Repubblica del 15 dicembre /999, a pag. 5. , il giornalista, commentando la crisi del Governo D ‘Alema, riporta integralmente il testo dell ‘ordinanza “e non perde occasione per chiarire che “Facite aminuina” era “l’ordine che il capitano doveva urlare all’arrivo a bordo dei Ministri del Regno borbonico.) se è vero che deputati e senatori, anche meridionali, vi ricorrono sovente per evocare situazioni di caotica anarchia. A beneficio dei meno edotti gioverà riportare di seguito il testo del “proclama”, per poi dedicare qualche riflessione alla sua presunta “paternità”.

(A titolo di esempio si riportano gli ultimi riferimenti in ordine cronologico, rinviando ad una pubblicazione successiva una descrizione più approfondita dei richiami in sede parlamentare, invero frequenti, non solo al “Facite ammuina! “ma, in generale, alle vicende della Dinastia Borbonica delle Due Sicilie. Atti Parlamentari - Camera dei deputati - Seduta n. 5 del 20aprile 1999. Seguito della discussione dell’ AC n. 5809.art. 2 NICOLA BONO: “Signor Presidente, nel regolamento che presiedeva al lavoro ed alla disciplina della Marina borbonica c’era una disposizione che prevedeva si facesse “ammuina”. La regola stabiliva che tutti i marinai che stavano a poppa dovessero correre a prua, quelli che stavano a prua dovessero andare a poppa, quelli che si trovavano sulla fiancata destra andassero su quella sinistra e viceversa. Questo avveniva quando era in atto   l‘ispezione di qualche alto ufficiale. L ‘articolo al nostro esame è copiato dalla disposizione della marina borbonica ,perché serve a far capire che stiamo facendo operazioni intelligenti per gli investimenti e l’occupazione, ma in effetti è assolutamente privo di significato (...). Seduta n. 531 del 4maggio 1999 AC n. 5809, esame dell’articolo. 25. NICOLA BONO .Il motivo per cui il gruppo di Alleanza Nazionale è contrario all ‘articolo 25 risiede nel fatto che esso ricorda il regolamento famoso della Marina borbonica, un ‘altra forma per fare ammuina “. Si noti che il deputato Bono fa parte del gruppo di AN e, soprattutto, è siciliano...! Seduta n. 628 del 25 novembre 1999, svolgimento di interpellanze urgenti. ANTONIO MARZANO (riferendosi al vertice internazionale di Firenze del 21 novembre 1999): “Se quel meeting non era ufficiale, non era governativo, ma era di partito, chi e perché ha sostenuto le spese, sicuramente ingenti, di tutta quella che, come dicevano i Napoletani ai tempi dei Borboni, è stata una “inutile ammuina”?).

Fin qui l’elucubrazione letterale di una iniziativa che, ove fosse stata inserita esclusivamente nel contesto di un pur deleterio e scontato folclore partenopeo, avrebbe potuto, al limite, risultare anche simpatica e divertente. A non renderla tale , almeno per chi abbia acquisito la sconcertante  convinzione della connessione con un deleterio quanto risibile tentativo di millantare paternità dalle quali mai si sarebbero generati aborti di tal fatta, è la riconduzione del proclama, sottolineata con solennità maggiore di quella conferita al proclama stesso, alla “Collezione dei regolamenti della Real Marina del Regno delle Due Sicilie”. L’intento sotteso a tale mistificazione appare evidente: siamo di fronte ad uno degli esempi più eccelsi di quella perversa spirale denigratoria che ha finito per far breccia nella coscienza comune proprio perché i suoi artefici sono riusciti a coniugare l’esaltazione di “ideali”, solennizzati oltre misura, con il ricorso a spunti apparentemente innocui, ma non per questo meno efficaci. Il contesto, insomma, è quello di una non meglio definibile attività di mistificazione pseudo goliardica che, paradossalmente, ha finito per rappresentare il vero architrave di una costruzione ideal-propagandistica oggettivamente fragile e traballante. In tale ambito, il “Facite ammuina!” si caratterizza dunque, insieme alle altre piccole idiozie alle quali si è fatto cenno poc’anzi, come una provocazione tutto sommato modesta ma dall’effetto deflagrante. Non può negarsi, infatti, che chi ha ordito la trama della demagogia ricorrendo alla più becera banalità abbia colto nel segno, se è vero che ancora oggi il “Facite ammuina!” , indelebilmente marchiato con il sigillo “borbonico”, continua ad esse rievocato anche in sedi che, a seconda dei punti di vista, potrebbero apparire più o meno autorevoli. Se questo è un dato amaramente oggettivo, ve ne è però un altro, che non può non essere segnalato a fondamento di un”azione di disconosci mento di paternità che, pur non tempestiva, mantiene comunque intatta la sua fondatezza e la sua legittimità. Sotto questo profilo, va subito evidenziato un dato che balza agli occhi perché esplicita la palese infondatezza della presunta paternità borbonica del proclama. Fin dall’epoca di Carlo III,ed è, questo, un elemento inoppugnabile, la cui veridicità non potrebbe essere contestata nemmeno dal più ardito dei filogiacobini , leggi e regolamenti del Regno erano pubblicati in lingua italiana. Dovremmo forse presumere che per il sullodato proclama si sia fatta un’eccezione, magari in omaggio all’eccelsa “valenza strategico-militare” delle disposizioni in esso contenute ...? O, più semplicemente, dovremmo ritenere che il ricorso alla lingua napoletana sia stato imposto per agevolare la comprensione dell’editto da parte degli ufficiali che, come è ben noto, non erano addestrati presso severe accademie ma scelti personalmente dal Re tra i venditori di pesce di Santa Lucia ed immediatamente investiti dell’incarico esclusivamente in ragione della loro capacità di smerciare i prodotti ittici ...? O, ancora, dovremmo forse pensare che sovrani sicur poco illuminati avessero d’un tratto vietato l’uso della lingua italiana come conseguenza del proverbiale rifiuto a tenere in qualsivoglia considerazione tutto ciò che provenisse da realtà esterne al Regno ...? Risulterebbe invero difficile, anche per il più tenace denigratore, accedere ad ipotesi del genere, soprattutto alla luce di dati che appaiono difficilmente contestabili: il rigore, anche formale, dei giuristi del Regno; l’assoluta inutilità, ai fini strategico-militari ma anche in funzione di mere finalità di cerimoniale, delle disposizioni contenute nel “Facite ammuina!”; l’elevato livello di preparazione e la rigorosa selezione degli ufficiali; la genuina ed autentica disponibilità dei sovrani borbonici a valutare con attenzione i modelli e gli stimoli d’oltre confine, anche recependoli, sia pure nelle circoscritte ipotesi in cui si fossero dimostrati oggettivamente superiori, preferibili o innovativi rispetto a sensibilità, costumi e modelli organizzativi radicati nel Regno. Il discorso, a questo punto, potrebbe anche considerarsi concluso, a fronte di un’argomentazione francamente efficace ed inoppugnabile. Gioverà tuttavia insistere nell” azione di disconoscimento di paternità”, adducendo ulteriori elementi di “prova”. Del resto, il buon giacobino, fervente unitario non acquisirebbe mai un convincimento diverso da quello instillato nel suo animo da decenni di propaganda mistificante ammesso che fosse questo l’intento perseguito, basandosi su una sola argomentazione, per quanto efficace e risolutiva essa possa apparire. S’impone allora un’integrazione degli argomenti a sostegno dell’azione di disconoscimento, utilizzando un diverso profilo speculativo. A tale proposito sarà sufficiente ricordare, così come Lorenzo Terzi ha fatto in modo esemplare che «Giuseppe Fioravanti, professore di storia della scuola e delle istituzioni educative presso l’Istituto universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli, nel saggio “La scuola normale ‘ scrive: “La scelta dei militari (al Sud) non era casuale né di comodo, ma era legata ad una specifica concezione dell’esercito napoletano meglio nota con l’espressione ‘esercito di cultura’, al contrario di quello dei Savoia che, ricalcando il modello prussiano, veniva definito come ‘esercito di disciplina’. La stessa cosa valeva per l’Armata di Mare, come veniva chiamata la Marina militare del Regno, la quale un alto livello di preparazione e di efficienza, al punto che Cavour dette ordine di adottarne per la marina da guerra del Regno d’Italia tutte le ordinanze, i regolamenti, i segnali e perfino le uniformi» Fin qui il Fioravanti. Ed è scontato ma non certo banale il commento di Terzi: “Ve lo immaginate Camillo Benso che dà l’ordine di adottare per la marina italo-piemontese regolamenti scritti in buffonesco dialetto partenopeo ? “ La citazione del Fioravanti, di fronte alla quale dovrebbero impallidire tutti coloro che si ostinano pervicacemente a sostenere la derivazione borbonica del “Facite ammuina!”, introduce un ulteriore elemento di valutazione ai fini del processo di disconoscimento di paternità, laddove ricorda che la Marina militare de! Regno era definita Armata di Mare e non Real Marina, come riportato in calce agli stampati di ogni risma sui quali è stato riprodotto il “proclama”.

L’ultima notazione (ultima solo in ragione della limitatezza delle conoscenze di chi scrive) riguarda il presunto firmatario del proclama, identificato ne! maresciallo in capo dei legni e dei bastimenti della Rea! Marina, Mario Giuseppe Bigiarelli”, de!la cui identità non vi è traccia in alcuna delle dettagliatissime pubblicazioni in cui sono riportati i nomi di ufficiali, sottufficiali e financo militari di truppa del!e armi dell’esercito napoletano: un errore imperdonabile per i propagandisti unitari che, da un lato, hanno attribuito paternità inesistenti e, dall’altro, non hanno dimostrato l‘intelligenza e la capacità necessarie a supportarne adeguatamente la costruzione.

LORENZO TERZI - In una corrispondenza con l’autore del giugno 1999.

Vedi anche LAMBERTO RADOGNA: Storia della Marina Militare delle Due Sicilie, Ed. Mursia.

Vedi nota 3.

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