Giovanni Pedersoli, sopravvissuto ad Auschwitz
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- Categoria: Cultura
- Pubblicato: Domenica, 06 Novembre 2011 11:34
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In occasione della Giornata della Memoria (istituita con L. 211 del 20/07/2000) i giovani dell’Associazione Libera Mente di Montecalvo Irpino, con il presidente Antonio Siciliano e il segretario dott. Francesco Pepe, nei locali del cinema Pappano, hanno ricordato l’Olocausto in un incontro con specialisti che hanno trattato, da varie angolazioni, il “Ricordo”. Il giovane biblista don Leonardo Lepore ha rivisto la Shoah dal lato religioso. Il Prof. Giuseppe D’Angelo, dell’Università di Salerno, ha trattato, storicamente, lo sterminio scientifico avvenuto nei campi polacchi. Ha moderato il dibattito il giornalista Vincenzo Grasso. Un giovane dell’Associazione, Angelo Michele Luisi, ha letto una scheda tratta da un mio libro in corso di pubblicazione, che fa conoscere e rivivere la figura di un montecalvese uscito vivo, ma distrutto nel fisico, dal campo di Auschwitz. Si tratta di Giovanni Pedersoli.
Eccone il profilo: il “nostro” nacque a Concordia sulla Secchia, in provincia di Modena, il 12 ottobre 1919. A Roma, il 30 ottobre 1971, vedovo, sposò la montecalvese Maria Giovanna Sorrentino. Abitava a Montecalvo a via dei Mille dove aveva trasferito la residenza da Roma il 1 aprile 1977. Morì da noi, in modo tragico, l’8 gennaio 1987. Era solo in casa. Era andato in bagno. Aveva difficoltà di deambulazione. Perse la presa di uno dei bastoni con cui si muoveva e, scivolando, andò a sbattere sullo spigolo della vasca da bagno. Al ritorno a casa la moglie fece la macabra scoperta. Il pronto intervento del medico non riuscì a salvarlo. Ritorno a Pedersoli: era maestro elementare e diplomato in stenografia. A Roma svolgeva il lavoro di sostituto capostazione nelle Ferrovie. Aveva 23 anni quando, all’indomani dell’8 settembre, volle recarsi nel paese d’origine per vedere i familiari ivi residenti. Passeggiava, con degli amici, nella piazza di Concordia sulla Secchia quando incappò in una retata di tedeschi. Fu subito rinchiuso in un vagone bestiame e spedito in Polonia. Mi diceva la moglie che, all’epoca, era un bel giovane aitante e di belle speranze. Nel campo di sterminio di Auschwitz i valorosi soldati dell’Armata Rossa, il 27 gennaio 1943, entrando per liberare i prigionieri sopravvissuti allo sterminio scientifico, in una “cuccetta”, notarono un “mucchietto umano” relegato in un angolo. Era Giovanni Pedersoli, che per le “bastonate” giornaliere in testa con un nodoso randello, come mi ha ricordato la moglie, era stato ridotto peggio di Quasimodo, il sacrestano che suonava le campane di Nostre Dame, l’essere deforme uscito dalla penna di Victor Hugo. I continui patimenti lo avevano distrutto e trasformato nel fisico: era costretto a camminare, curvo, con due bastoni. Per evitare che i muscoli si atrofizzassero era sempre in movimento come una trottola. Giocava anche a tennis con due racchette appositamente costruite e fissate ai gomiti. Guidava anche un’auto adattata alle sue menomazioni. Del tempo trascorso nel campo di sterminio parlava ai giovani con orrore. Citava sempre Primo Levi e il suo “MAI PIU’!“. La moglie mi confermava che era lo zio del famoso attore Bud Spencer. In paese si racconta che Carlo Pedersoli (l’attore), in occasione del decesso del congiunto, sarebbe venuto in incognito, per non rubare la scena al parente defunto, a Montecalvo e sarebbe andato ad omaggiare lo zio, all’imbrunire, al locale cimitero dove Giovanni Pedersoli riposa. Aveva sei figli. A Montecalvo era amico di tutti e con tutti si intratteneva in lunghe chiacchierate. Istituì pure una scuola di stenografia e si affacciò anche alla ribalta della politica amministrativa locale candidandosi con lo scomparso PSI.
Il campo di concentramento di Ariano
Il ricordo di Giovanni Pedersoli ha fatto riemergere anche le figure dei tanti confinati politici slavi obbligati a dimorare nel nostro comune, lontano dai luoghi di abituale residenza, scelto dall’autorità fascista, forse su suggerimento del nostro concittadino l’on. ing. Francesco Caccese, che allora era federale di Gorizia (il “confino” fu applicato solo a persone che svolgevano attività politica contraria a quella del regime). Il riferimento ai tanti confinati mi ha fatto ricordare anche i racconti degli anziani che, oltre agli “esiliati”, mi parlavano pure del campo di concentramento di Ariano, riservato sempre a personaggi provenienti dall’ex Jugoslavia (forse istituito sempre su suggerimento del nostro concittadino deputato fascista). Quel luogo di detenzione forzata, che funzionò dal 1940 al 1943, si trovava in località Martiri, nelle casette asismiche costruite nel 1930 e che, inizialmente, erano state adibite a colonia montana. La targa che si vede in una vecchia fotografia, recita: “Federazione dei Fasci dell’Irpinia. Ente Opere Assistenziali. Colonia Montana Arnaldo Mussolini”. La località Martiri si trova a circa cinque chilometri dalla stazione ferroviaria e, quindi, di facile accesso, a piedi, per gli internati che vi venivano destinati. In Irpinia furono istituiti tre campi di internamento: Ariano Irpino, Monteforte Irpino e Solofra. Solo il campo di Ariano era quello che assomigliava di più ai lager tedeschi: 10 baracche ad un solo piano delimitate da filo spinato più il villino dei Mazza dove domiciliavano i “kapò”. Poteva ospitare 130 deportati. Al massimo ne ospitò 86, provenienti, come già accennato, dai paesi slavi. Lo dirigeva il commissario di P. S. dott. Vito Pirozzi con cui collaboravano il brigadiere Farinata, l’agente Ciro Romano ed i Carabinieri della stazione del Tricolle. I campi di detenzione forzata nostrani si differenziavano da quelli polacchi: in essi innanzitutto non si praticava lo sterminio sistematico. La vita all’interno era abbastanza dignitosa e le punizioni non erano la norma. In genere l’alimentazione era più che sufficiente. L’assistenza sanitaria era curata dal medico condotto. Se qualche “detenuto” aveva necessità di cure specialistiche veniva accompagnato agli ospedali di competenza dai carabinieri. In quei campi, gestiti dalla milizia fascista, non si usavano strumenti di tortura. Gli internati godevano di una certa libertà di movimento. Potevano allontanarsi, comunicandolo ai superiori, anche per tutta la giornata. In un libro di memorie dell’internato a Montecalvo, lo sloveno Josip Kravos dal titolo “Montecalvo Irpino, l’Ultimo Luogo d’internamento”, pubblicato a Trieste nel 1975, ho letto che due “prigionieri” del campo di Ariano, Danilo Danev e Ivan Silic, entrambi di Trieste ed amici di Kravos, musicisti, venivano a Montecalvo facendosi a piedi il percorso di circa dodici chilometri e si esibivano anche nelle case di professionisti che avevano il pianoforte. Il campo di Ariano, dopo l’8 settembre 1943 fu incendiato dalle truppe tedesche in ritirata da Brindisi, per non lasciarne traccia e far scomparire quel luogo di annientamento della personalità umana. Quelle armate, per sfuggire ai controlli effettuati dagli aerei di ricognizione sulle strade statali, deviarono sulla viabilità secondaria. A qualche chilometro dal campo arianese imboccarono la strada per Montecalvo dove, alla stazione ferroviaria, per ritardare l’avanzata delle truppe alleate che li inseguivano, minarono e fecero saltare il ponte sul Miscano e quello di ferro della ferrovia. Del campo di Ariano esistono solo poche foto e quasi più nessuno ha memoria di quel luogo d’internamento forzato. In quel posto di detenzione erano ricoverati tanti professionisti e studenti contestatori. Si racconta che un chirurgo slavo, col beneplacito dei guardiani, dava una valida mano per la cura e per piccoli interventi chirurgici agli abitanti della zona. Oggi al posto di quelle “casette asismiche” stanno nascendo dei grossi condomini sostitutivi.
E’ accaduto: la chiamata alle armi delle ragazze diciottenni
Sarà vera la notizia della chiamata alle armi, verso la fine della Seconda Guerra mondiale, delle ragazze fino a diciotto anni d’età? In uno struggente libro di ricordi su Montecalvo, scritto dalla nostra concittadina insegnante Agnese De Florio, pubblicato a Firenze dove l’autrice risiede, ho trovato scritto, a pag. 20, nella scheda intitolata “Mia madre”, che nel periodo fallimentare della Seconda Guerra mondiale (1943), furono arruolati i maschi fino a 18 anni e, contemporaneamente, per la prima volta, come ausiliarie, anche le donne fino a quell’età ricevettero la cartolina di precetto. A ricordo dell’autrice l’arrivo di una camionetta di camicie nere che girava per le case delle arruolate provocò grande paura e disagio. Era l’epoca in cui, come scrivono Luciana Litizzetto e Franca Valeri nel loro libro “L’educazione delle fanciulle” del 2011: alle minorenni (all’epoca la maggiore età si “conquistava” a ventuno anni), “ … l’ammonimento principe era: «Comportati bene, devi essere una brava ragazza». E la “brava ragazza” si cementava la jolanda e dall’ombelico in giù non sapeva che cosa aveva a disposizione…” . Figurarsi le mamme quando videro recapitare alle figlie, “nel primo fior di giovinezza ancora”, la cartolina verde di chiamata alle armi.
Già le vedevano, sul campo di battaglia e nelle trincee, “sbranate” da maschi assatanati. Ecco come l’amica Agnese, ormai ottantenne, nel suo libro ricorda l’episodio: “Quando scoppiò la guerra mio padre morì a soli trentavove anni. Mi ricordo che al paese tutte le persone fino a diciotto anni, anche le donne, dovevano andare in guerra. Anche mia sorella maggiore Mina (Minuccia, la moglie del sindaco Ciccio Panzone n. d. a.) ebbe la cartolina per andare a fare il militare ed anche le sue amiche. Eravamo sconvolte a pensare che le donne dovessero combattere. Mia madre non disperava. Diceva «non piangete, finirà tutto in una bolla di sapone». E fu così, perché nessuna ragazza partì … ” perché intanto era sopraggiunto l’armistizio.
Ecco i nomi di alcune delle ragazze montecalvesi arruolate, ormai tutte decedute, di cui sono riuscito a trovare notizie su ricordo di parenti ancora in vita (in parentesi i soprannomi con cui erano conosciute e la data di nascita): Gelsomina Di Florio (Minuccia Picciotta, 11/11/1925), Giuseppa Sorrentino (Pippinella Caudarulu, 14/10/1922), Giuseppina Moliterno (Pippinella Grappone, 26/10/1925), Pia Santosuosso (Piuccia Cardelle, 01/10/1925), Maria Leonarda Panzone (Lunarduccia Pacchitella, 13/04/1920), Carmela Cipolletti (Milina, 07/04/1927), Maria Giovanna Sorrentino (Maria Giuvannella, 05/08/1927). Le nate del 1927, all’epoca della coscrizione sedicenni, furono “sollecitate”, mi hanno riferito, dai gerarchi locali ad arruolarsi “volontariamente”. Mario Aucelli
Da Il corriere dell'irpinia del 8/02/2012
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