I fatti di Ariano del settembre 1860
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- Categoria: Storia
- Pubblicato: Martedì, 12 Ottobre 2010 09:01
- Scritto da Mario Sorrentino
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Le due ricostruzioni storiche dei fatti di Ariano che diffondiamo qui di seguito, ci permettono di avere due prospettive che si completano e correggono l'una l'altra.
Nicola Nisco, patriota e conterraneo, liberale della prima ora, fa una narrazione senz'altro veritiera, riportando probabilmente racconti di prima mano dei protagonisti di parte liberale. Egli però era un alto esponente dei " galantuomini" del Regno che, se ardevano di ideali a riguardo dell'Unità del paese, non potevano o volevano, capire perchè i " cafoni" la pensassero diversamente da loro sulla questione della terra. Francesco II°, e prima di lui suo padre, Ferdinando, aveva promesso che una famosa commissione centrale nominata per portare a compimento l'eversione ( cioè l'abolizione ) dei feudi, avrebbe ripreso i lavori per la concessione delle terre già feudali ai contadini poveri e ai braccianti, ma con la
prospettiva che presto sarebbero arrivati i "piemontesi", questi temettero che le cose tornassero come erano prima che il re di Napoli francese, Gioacchino Murat ( il re del famoso decennio 1800-1810),nel 1806 emanasse il suo decreto per l'abolizione dei feudi. Ad Ariano c'era una situazione particolare. Gli arianesi avevano riscattato a caro prezzo le loro terre ( quelle che saranno chiamate di "Campo reale") dal feudo del Marchese di Bonito. Le terre erano diventate del demanio reale pubblico.
Il che voleva dire che i contadini poveri vi potevano fare il legnatico, pascolare, ecc. Evidentemente Campo Reale non era stato ancora ridotto a coltura a grano. Perciò i contadini si atterrirono quando seppero che dei "galantuomini" volevano che il territorio fosse annesso al Regno Sabaudo. I preti sapevano e li avvertirono che in Piemonte non c'era stata l'abolizione dei feudi. Quindi le terre del famoso demanio non sarebbero state più parcellizate per i contadini in una riforma agraria avanti littera, come si sperava di ottenere da Francischiello che prometteva (con l'acqua alla gola) di voler mantenere in vigore la riforma murattiana del 1806. Si spaventarono a morte e fecero un massacro, come racconta Nisco. La storia che invece avessero paura che i liberali "senza Dio" fondessero il busto d'argento di Sant'Oto è una esagerazione dei liberali. Può darsi però che servisse come grido di battaglia per la gente del " Sauco" di ariano, poveri braccianti facilmente manovrati dal clero. Nisco era nato a S.Giorgio la Montagna (l'odierna San.Giorgio del Sannio)in provincia di Benevento nel 1820.Patriota,fu condannato per i moti del 1848 al carcere duro. Esiliato a Malta nel 1858, rientrò prima a Firenze e poi nel Regno di Napoli,dopo che Garibaldi sbarcò in Calabria.Dopo l'Unità fu ministro dell'Agricoltura. Fu storico degli avvenimenti di cui fu spesso testimone, come si evince dal suo racconto storico.
A.Caccese - M.Sorrentino
NICOLA NISCO – Storia del Reame di Napoli –dal 1824 al 1860
In Avellino v’era pure un comitato dipendente per mezzo del Pepere dal comitato dell’Ordine di Napoli, di cui facevano parte l’avvocato Serafino Soldi, lo scolopio Eduardo Nitti rettore del liceo provinciale, il Genovesi, i fratelli Angelo e Giuseppe Santangelo, n’era segretario Vincenzo Di Napoli e presidente il venerando ed eccelso patriota Lorenzo de Concilii, il quale aveva proclamato la costituzione del 1820 nella piazza di Avellino, combattuto per la libertà in Grecia ed in Spagna durante il lungo esilio e, tradita la libertà da re Ferdinando nel quarantotto, viveva di memorie e speranze, nel ritiro della sua villa in Avellino. In nome di questo comitato l’abate di Montefusco Pasquale Ciampi, fra i più infaticabili partigiani della redenzione d’Italia nel 20, veniva in Napoli a fàrmi richiesta di danaro e di armi. il 22 io andava in Avellino in casa del de Concilii ove era riu nko il comitato. In unione del Ciampi consegnai al presidente ed al segretario di Napoli un sacchettino di marenghi e fu stabilito che centro del movimento sarebbe stato Ariano città situata a cavaliere di un monto della catena secondaria degli Appennini fra le pianure taurasine e le pugliesi. Francesco Pepere era dal comitato stesso incaricato di rappresentano presso il comitato centrale dì Napoli, e, per la gran fiducia che in lui aveva meritatamente il De Concillii, era spedito in Avellino a fine di fargli assumere il comando degli armati da riconcentrarsi in Ariano.
E col Pepere partiva per Avellino il colonnello Francesco Matarazzi, anche uno degli strenui difensori di Venezia, in caricato come il Boldoni in Basilicata, della parte attiva militare, sotto il supreme comando che in Napoli teneva il generale Ribotti. Ma arrivato ad Avellino trovò riunito nel Collegio provinciale un nucleo di mazziniani che mirava a deviare il corso regolare della rivoluzione, già preparata per la proclamazione del governo provvisorio con Vittorio Emanuele re e Garibaldi dittatore. Del quale proposito dei mazziniani il Matarazzi fu sdegnato tanto che senza discuterne ritornò in Napoli, non volendo che lo stendardo della monarchia coprisse una rivoltura repubblicana. In quei punto ritornò nell’animo del Leone irpino il de Concilii l'ardi mento giovanile. Egli tosto riuniva in sua casa gli uomini che dovevano con lui dirigere il movimento come Cesare Oliva. l’abate Pasquale Ciampi, Giuseppe Vitolo, Gicacchino Testa. Grano de Leo, il prete di Maìo, col Pepere ed i membri de comitato. Soldi, Nitti, di Napoli, Genovesi ed il delegato potentino Rocco Brienza , deliberarono il concentrare le forze liberali per la mattina del 4 settembre in Ariano. Ma non tutti tennero l’appello. Appena 300 militi nazionali giungevano da Mirabella e dal mandamento di Andretta, capitanati dall’arciprete Antonio Miele e da Francescantonio Cipriani. A loro dagli arianesi fu fatta accoglienza non che poco onesta, nemica. Di ciò non si sgomentò il de Concilii, e, con l’audacia di quarant’anni innanzi convocava nel palazzo vescovile essendo assente il vescovo i maggiorenti della città per provvedere alle necessità della difesa ed alle diramazioni del movimento. Frattanto che i congregati nel palazzo vescovile discutevano su i provvedimenti a prendere, ed il de Concilii assumendo il comando supremo dell’ esercito insurrezionale, vi faceva entrare a consiglio del Pepere, il manipolo mazziniano, la plebe di Ariano, incitata da alcuni oggidì trasformati in progressisti, si fece a gridare intorno all’episcopio: fuori i forestieri. Allora i cittadini, che erano in congresso col comitato avellinese rifiutarono ogni partecipazione al movimento e contemporaneamente la rappresentanza municipale protestava contro la violenza che ai cittadini si faceva. Il de Concilii, assistito dai segretari Pepere e di Napoli ed appoggiato da tutto il comitato avellinese, prese risoluzione pronta ed ardita: proclamò il governo provvisorio in nome di Vittorio Emmanuele e di Garibaldi dittatore, e si fece a disporre le forze per impedire l’ingresso delle truppe regie e l’ammutinamento dei villani, moderni trogloditi, che, incitati dai reazionari. uscivano dalle caverne incavate’ e venuti in paese, a loro dire, per oltraggiare le donne rapire alla chiesa il loro santo fuso in argento trasformare le campane in cannoni e compiere altre favoleggiate ribalderie. Ai villani della città si aggiungono quelli del contado che all’alba del 5 irrompono, gridando per le vie fuori i forestieri, sonano le campane a stormo, e la sollevazione diventa furiosa, implacabile. Indarno le milizie liberali venute, divise in drappelli e postate agli sbocchi delle vie, si sforzarono ad arrestare il movimento, che aumentatesi tempestosamente le onde della plebe, i notabili della città, onde la calma ritornasse. consigliarono quei chiamati forestieri a partire, e questi, stanchi degli oltraggi, sdegnosamente si affrettarono, senza intelligenza dei capì che erano ancora in consiglio nel palazzo del vescovo, di abbandonare un paese fattosi selvaggio. Nel l’attraversare, disordinatamente le avvallate vie dei campi, furono essi accerchiati dalla plebe furente, e furono tutti uccisi a colpi di fucile e di scure Fra i molti morti vi fu il prete di Cairàno Leone Frieri, che ferito cadeva gridando viva 1’ Italia, e, baciando la coccarda tricolore spirava con la speranza che quella terra innaffiata dal suo sangue sarebbe rigenerata alla libertà.
Con l’uccisione dì molti della milizia nazionale del mandamento di Andretta non ebbe fine l’empio tumulto. La ferina plebe, dopo aver danzato sui cadaveri rimasti insepolti a pasto dei cani , corse, sul palazzo vescovile con fascine accese per incendiario. Il comitato, col de Concilii alla testa e le armi spianate, coraggiosamente usciva dal palazzo e diretto dal prete di Maio prendeva Il cammino di Greci suo paesello. Ivi ad incontrarli corsero anche le donne con fucili sulle spalle gridando: Viva 1’ Italia morte ai Borboni !, barricando i passi, ed ai fuggenti dettero ogni specie. di onoranza, di aiuti e di provvigioni. Nel di seguente, sempre guidato dal di Maio, il de Concilii ed i suoi passarono a Casalbore, accolti pur festosamente e di là a Buonalbergo, ove nel mattino del 6 settembre si rinnova la proclamazione del governo provvisorio. Una commissione, composta di Ce sare Cleva, Vincenzo di Napoli e Pasquale Piciocchi fù spedita dal de Concilii al Garibaldi per presentargli la dedizione della provincia di Avellino all’ Italia e a Vittorio Emmanuele, re della nazione redenta nella libertà. In questo mezzo la plebe arianese, nella certezza dell’arrivo delle truppe regio comandate dal Flores continuava nei trionfi e nella vendetta. Fu negato di dar sepoltura agli assassinati, vennero elette novelle magistrature nel municipio. cancellato anche il nome di guardia nazionale., lacerata e calpestata la bandiera. Cotesta baldoria reazionaria durò quattro giorni, finchè non giunsero i garibaldini comandati dal generalc Turr, che davvero conquistarono Ariano come Isernia alla civiltà.
Giorgio Candeloro – Storia dell’Italia Moderna – Vol.IV “Dalla rivoluzione nazionale all’Unità”
Anche la situazione militare influì sulla decisione di Garibaldi di rinunciare all’avanzata su Roma, L’esercito borbonico, dopo essersi ritirato da Napoli, contava ancora circa 50.000 uomini, bene armati, rimasti immuni dallo sfa celo e quindi animati da un notevole spirito combattivo. Esso si schierò sulla riva destra del Volturno tenendo saldamente la città Fortificata di Capua sulla sinistra e avendo alle spalle la piazzaforte di Gaeta. Era Quindi in condizioni di resistere efficacemente ed anche di tentare una controffensiva su Napoli. Frattanto l’insurrezione antiborbonica, iniziatasi già alla fine d’agosto si era estesa anche alle pro vince non direttamente toccate dall’esercito di Garibaldi. Nell’Irpinia, nel Sannio nelle Puglie, nel Molise e negli Abruzzi si erano formati governi provvisori Composti di moderati e di democratici (in genere con prevalenza dei primi sui secondi) e si erano costituiti reparti della Guardia Nazionale ed anche piccole legioni di volontari che affluirono all’esercito garibaldino, sebbene in misura minore di quanto era avvenuto in Calabria, in Basilicata nel Cilento. In tutte le province il governo dittatoriale nominò dei governatori, i cui poteri furono motto estesi con un decreto deI 17 settembre. L’esercito garibaldino, o Esercito Meridionale, come Garibaldi lo aveva ufficialmente chiamato, contava anch’esso circa 50000 uomini verso la fine di settembre, dei quali poco più di 20.000 erano venuti dall’Italia centro-settentrionale con le varie spedizioni tra maggio e settembre, mentre gli altri si erano arruolati in Sicilia e nel Mezzogiorno continentale. Ma esso era nettamente inferiore a quello borbonico per 1 artiglieria e la cavalleria e comprendeva anche reparti improvvisati poco efficienti. Inoltre solo 20000 uomini o poco più erano concentrati sul Volturno, poiché gli altri dovevano presidiare le varie pro vince ed erano in parte impegnati in operazioni di repressione. Infatti aveva cominciato a manifestarsi in varie zone del Mezzogiorno continentale quel grave fenomeno dì insorgenza contadina, che fu poi impropriamente de brigantaggio? Moti contadini, miranti come al solito soprattutto alla rivendicazione delle terre demaniali usurpate si erano delineati un po’ dappertutto in luglio e in agosto e l’agitazione si era accresciuta via via che Garibaldi avanzava. In Calabria e in Basilicata i proprietari liberali, diressero le insurrezioni antiborboniche, riuscirono in un primo tempo a tenere a freno i contadini o addirittura a trascinarseli dietro con provvedimenti demagogici di emergenza. Garibaldi stesso emanò da Rogliano in Calabria un decreto che ristabiliva i diritti d’uso nelle terre demaniali della Sila. Ma ben presto questi provvedimenti furono di fatto annullati e furono invece adottate dai liberali severe misure per reprimere le agitazioni contadine. Al principio d settembre questi moti cominciarono qua e l ad essere diretti da elementi reazionari locali e ad essere appoggiati da truppe borboniche sbandate o in ritirata verso il Voi turno Il primo episodio grave di insorgenza utilizzato in questo senso si ebbe ad Ariano dove una grossa massa di contadini insorti uccise circa 140 liberali e guardie nazionali che avevano costituito un governo provvisorio. Questa insurrezione che si diffuse ad altri paesi dell’alta Irpinia e del Sannio, fu domata senza troppa difficoltà da una Colonna garibaldina, comandata dal generale Turr. Nella seconda metà di settembre però episodi di questo genere si moltiplicarono un pò dovunque, mentre il governo borbonico da Gaeta iniziava una vasta azione per utilizzare l’insorgenza contadina per la riconquista del Regno, secondo la tradizione sanfedistica risalente al 1799. Questa azione fu appoggiata da urta parte notevole del clero e trovò un terreno propizio nel tradizionale lealismo dinastico dei contadini, i quali per secoli erano stati abituati a vedere nel re l’unico difensore contro le sopraffazioni e le usurpazioni dei nobili e dei borghesi. Il piano borbonico mirava ad utilizzare le forze dei contadini insorti contro i “galantuomini” liberali per rinforzare da un lato il grosso del l’esercito che avrebbe dovuto riconquistare Napoli e dall’altro i reparti che avrebbero dovuto fronteggiare la prevista avanzata delle truppe piemontesi negli Abruzzi e nel Molise.
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