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ll re Manfredi e l’Irpinia

 ll re Manfredi e l’Irpinia

« Urbanus Episcopus Senus Servorum  Dei — Universis  nostris et Ecclesiae Romanae coeterisque Cristifidelibus, salutem et Apostolicam benedictionem.Olim  in die Coenae Domini proximo praeterito quo videlicet annis singulis apud Sedem Apostolicam de universis Mundi partibus innumerabilis, Fidelium convenit multitudo Manfredum quondam Principem Tarantinum super certis articulis praesente ipsa multitudine manifeste citavimus ut in Kalendis Augusti proximo praeteritis coram nobis per se, vel per solemnes Procuratores cum sufficienti mandato comparere curaret, facturus et recepturus suer illis quod iustitia suaderet; videlicet super destructione Civitatis Arianensis, quam  per Saracenos fecit funditus dissipari, et super interfectione turpissima Tomasi  de Oria  et  Tomasi de Salice, ac super crudeli  et proditiosa occisione Petri de Calabria Comitis  Catanzari, et  horrenda effusione sanguinis multarum fidelium nec non super eo quod in derogationem au toritatis Ecclesiasticae, vel Censurae, quae fulcimennum est Fidei, atque robur, et ipsius detractionem, Fidei pluribus iam annis sibi fecit, et facit adhuc publice celebrari, vel quantum in eo est, potius profanari Divina, quod non caret scrupolo haereticae pravitatis. Et citato propter hoc a fel. record. Alexandro Papa praedecessore nostro, quia in praefixo ei termino, nec post, etiam com parere curavit fuit per praedecessoreim eundem excomu nicationis vinculo ac de causa specialiter innondatus, ect. - Datum apud Urbem veterem III  Idus Novembris Pontificatus nostri anno II . » 

La quale data si spiega per il 6 aprile 1262 - Vedi Sbaraglia - Bullar: Franciscan : tom. 2 p. 453 - Vedi Annali Ecclesiastici - del Rainaldo - anno 1263 - N. 65.

Da questa bolla risulta che Ariano fu fatta distruggere da re Manfredi, per mano dei saraceni, perchè partigiana del papa. Si afferma ancora, che S. Eleuterio - un discreto centro abitato - subì la istessa sorte, come pure altri paesi circonvicini sentirono gli effetti funesti del saccheggio e dello esterminio. Circa tale punto noi abbiamo la conferma dai registri angioini - da cui risulta che in questa nostra zona, diversi paesi furono rasi al suolo e messi a ferro e fuoco.

Montecalvo, che non era fuori mano - si trovò in analoghe circostanze, e per le medesime ragioni sentì le orribili atrocità saracene, rimanendo saccheggiata selvaggiamente. Questo particolare lo abbiamo dalla Cronaca del Rev.do Giov: Battista Capozzi, Abate Cassinese - intorno all’anno 1254, regnando papa Ales sandro IV. Nè poteva sfuggire ai danni ed a tutto ciò che accadeva a pochi chilometri da essa. Se ben si osservi 1’ antichissimo Castello feudale - sito nell’ in terno del presente palazzo ducale - si vedranno le tracce della devastazione operata. Dopo la riferita distruzione saracenica, non sappiamo altro relativamente alla riedificazione. Dalla Cronaca di Cassino sappiamo solamente di Ariano, che fu riedificata da Carlo d’Angiò verso il 1265.

Il predominio degli Svevi in Italia fu contrassegnato da un lungo e violento contrasto col papato, che, per quanto provocato soprattutto da controversie di ordine politico piuttosto che da un’opposizione di principio di natura teologica, raggiunse punte di asprezza e di intolleranza dopo la promulgazione nel 1231 delle Costituzioni Melfitane o Liber Augustalis di Federico II di Hohenstaufen, con la proclamazione della concezione maiestatica e assolutistica del potere, tutto raccolto nelle mani del sovrano, coadiuvato dalla Magna Curia dei principali ufficiali del Regno. Inoltre le tergiversazioni e le continue esitazioni dell’imperatore germanico a mantenere l’impegno di mettersi a capo di una nuova crociata, insistentemente richiesta dal papa, per liberare Gerusalemme e il santo sepolcro accrebbero la diffidenza tra i due.
La scomunica pronunciata dal papa Gregorio IX contro il figlio di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla e non revocata per l’esito ritenuto vergognoso della VI crociata (l’imperatore dietro pagamento ottenne dal sultano d’Egitto Al-Kamil, col concordato di Giaffa, la liberazione dei Luoghi Santi e l’incoronazione di re di Gerusalemme) e la sua successiva deposizione nel concilio di Lione, convocato nel 1245 dal nuovo papa Innocenzo IV, rigidissimo sostenitore della “plenitudo potestatis”, riuscirono solo a frenare e a ritardare il progetto federiciano di estendere le strutture organizzative e il governo del Regnum Siciliae a tutta l’Italia, compreso lo Stato della Chiesa appena costituito, ma non a creare un pacifico modus vivendi tra le due Autorità o ad instaurare una serena coesistenza tra il potere regio e quello papale. Neppure la morte dell’imperatore svevo, avvenuta improvvisamente il 13 dicembre 1250 nel castello di Ferentino presso Lucera, riuscì a porre termine al conflitto con la Chiesa, che fu ripreso dal figlio naturale di Federico, Manfredi, principe di Taranto, nominato dal padre stesso a succedergli nel regno di Sicilia qualora i due figli legittimi, Corrado e Enrico, fossero morti senza discendenti. Le condizioni previste nel testamento di Federico si verificarono nel 1254, favorendo i piani ambiziosi di Manfredi, che, dopo aver assunto il baliato nell’Italia meridionale, si fece incoronare re a Palermo usurpando, in violazione delle leggi della successione, i diritti del piccolo Corradino, figlio di Corrado IV, difesi del papa, preoccupato della politica indipendente di Manfredi.
Da parte guelfa, corse voce, ingrandita dall’odio partigiano e dalla fantasia popolare che Manfredi, per ambizione di regnare e per sete d’oro, avesse assassinato il padre, mentre era degente a letto colpito da una grave dissenteria (“con un primaccio in sulla bocca l’affogò”), avvelenato il fratello Corrado e tentato di far assassinare il nipote Corradino. Forse anche Dante sembrò alludere a queste infamanti accuse, quando fece confessare a Manfredi, incontrato sulla spiaggia dell’Antipurgatorio nella schiera dei morti scomunicati, “Orribil furon li peccati miei” (Purgatorio, c. III, v. 121).
Un non effimero legame d’affetto, rinsaldato dalla riconoscenza, unì alla terra d’Irpinia il giovane re, che, abbandonata l’dea di essere sepolto accanto al padre Federico II in un sarcofago di porfido rosso nella cattedrale di Palermo, aveva intenzione di trovare una degna sepoltura nella basilica di Montevergine in un sarcofago romano di marmo strigilato, ornato con due teste leonine, rinvenuto sul monte Partenio tra i resti dell’antico tempio di Cibele e posto nella cappella absidale della Deposizione o Schiodazione di Gesù, fatta erigere, secondo la tradizione, nel 1260 da lui stesso e così chiamata da un Crocifisso, donato sempre da Manfredi, con le braccia schiodate distese in basso sul sarcofago aperto in atto di accogliere, confortare e perdonare il peccatore pentito. Il Crocifisso una scultura lignea del XIII secolo di autore ignoto, raffigurante il Cristo in atto di essere deposto dalla croce, affiancato dall’Addolorata e dalla Maddalena (le due statue sono andata distrutte o disperse) fu restaurato nel 1950 in occasione della mostra “Sculture lignee nella Campania”.
Non sembra avere un valido fondamento storico che Manfredi, durante i sui viaggi in Irpinia, abbia visitato il Sacro Monte e che abbia scelto ivi la sua tomba, se non la contemporaneità della costruzione di quella cappella col suo governo; tuttavia la tradizione, che si è mantenuta costante per tanti secoli, non può essere ritenuta assolutamente falsa o del tutto priva di attendibilità in quanto i re di Sicilia, normanni e svevi, per motivi religiosi e politici, tennero sotto la loro protezione sovrana la basilica di Montevergine, concedendole privilegi, esenzioni e donazioni. In un privilegio del marzo 1195 Enrico VI passò nelle mani degli abati i poteri baronali sul territorio di Mercogliano prendendo il monastero sotto la sua protezione, che

venne confermata ed ampliata con la concessione di altri beni feudali dal figlio Federico II con un diploma del 1220. Non è da escludere, quindi, che l’ultimo svevo sul trono della Sicilia abbia seguito l’esempio dei suoi predecessori, anche se dai documenti esistenti nell’Archivio di Montevergine nulla risulta che valga ad avvalorare la tradizione. Bisogna però dire che lo stesso Carlo I d’Angiò diede credito a quanto si raccontava, tanto che, asceso a Montevergine per rendere grazie della vittoria conseguita a Benevento, donò la cappella del re vinto a uno dei suoi fedeli, il maresciallo Giovanni della Lagonessa, che vi fu sepolto nel 1287.
Soltanto nel tardo Seicento si cominciò a trovare traccia sulla cappella fatta erigere da Manfredi, ma, come aggiunse l’abate don Amato Mastrullo, importante scrittore verginiano di Castelbaronia, nel suo “Montevergine sacro”, il re “non vi giunse ad haver sepoltura ecclesiastica per essere stato scomunicato da tre Pontefici et ammazzato in Benevento”. Anche l’abate don Matteo Jacuzio e nell’Ottocento l’avvocato Giovanni Zigarelli prestarono fede alla tradizione riportando nei loro scritti la notizia della tomba del sovrano svevo.
E nei riguardi del figlio di Federico II e di Bianca Lancia di Monferrato- che fu legittimato in extremis perché il padre offrì l’anello nuziale a Bianca languente sul letto di morte per un male inguaribile- la gente irpina corrispose altrettanta simpatia, culminante con le manifestazioni di entusiasmo popolare, che Atripalda gli tributò il 29 ottobre 1254 durante una sosta della sua precipitosa e ardita fuga verso la Puglia.
Pur essendo solo un piccolo frammento di una vita breve ma avventurosa, l’avvenimento, narrato da un testimone oculare, lo storico Niccolò Jamsilla, si inserisce nel più ampio contesto dell’aspra lotta per la conquista della corona di Sicilia che il “nepote di Costanza imperadrice”, capo del partito ghibellino in Italia, fedele alla politica del padre, aveva ripreso contro il papato; ma dopo la sua scomunica tentava di seguire la via della mediazione concordando con papa Innocenzo IV un incontro chiarificatore a Capua per accettarne le condizioni. Un imprevisto incidente venne, però, a compromettere il tentativo di pace facendo precipitare la situazione: in uno scontro armato, non provocato né voluto da Manfredi, cadeva ucciso il barone Borrello d’Anglano, che, traditi gli Svevi, si era schierato col papa, ricevendo in cambio di questa adesione il possesso del contado di Lesina, destinato per disposizione testamentaria di Federico II al figlio. Incolpato della morte del traditore, Manfredi, per sottrarsi all’ira del pontefice e alle vendette dei nemici, si ritirò ad Acerra, ospite del cognato, il conte Tommaso d’Aquino, marito di Margherita di Svevia, figlia naturale di Federico II, considerato il suo principale sostegno. Qui avrebbe atteso il marchese Bertoldo di Hohemburg, il quale, subdolo e falso, cercava di rovinare di più la posizione di Manfredi con segrete trattative col papa. Ma, non sentendosi ancora al sicuro, seguendo il consiglio di Galvano Lancia, preferì nel cuore della notte allontanarsi anche da Acerra e affrontare un lungo viaggio per rifugiarsi a Lucera, una città fortificata, dove poteva contare su un esercito fedelissimo di 20.000 saraceni, che fu uno dei più efficaci strumenti della potenza sveva.
Ammantato da un alone di leggenda, l’episodio fu ingrandito e magnificato oltre il suo valore reale, fino ad essere iperbolicamente comparato da qualcuno all’egira di Maometto, dopo l’esaltazione nel Purgatorio dantesco della morte eroica di Manfredi, idealizzato come un archetipo di cortesia, coraggio, cultura e, dopo il supremo olocausto, anche di fede. Ciò è da attribuire soprattutto a Jamsilla, il cui lineamento biografico è assai incerto, anche se qualche studioso come il Karts ha azzardato l’ipotesi che possa essere identificato col segretario di Manfredi, Goffredo di Cosenza. Il cronista, autore dell’”Historia de rebus gestis Frederici II imperatoris eiusque filiorum Conradi et Manfredi Apuliae et Siciliae regum” (contenuta con la traduzione di S. Gatti nella silloge di G. del Re “Cronisti e scrittori sincroni napoletani”), rievocò l’affannosa cavalcata di 200 chilometri con l’emotiva partecipazione a un avvenimento personalmente vissuto. Successivamente molti altri autori hanno fatto riferimento nelle loro cronache all’avvenimento, colorendo ancora di più la descrizione, già abbastanza vivace, arricchendola nel tempo di luoghi e di fatti e creando uno scarto tra la realtà storica e il riporto storiografico, dovuto all’accettazione acritica di ipotesi poco fondate o alla contaminazione di fonti diverse.
Tuttavia, anche senza la connotazione caratteristica e la dimensione straordinaria dell’epos, non fu del tutto agevole giungere da Acerra a Lucera, inerpicandosi durante la notte per gioghi dirupati e per aspre erte e seguendo un percorso accidentato, ma sicuro per scongiurare la rappresaglia delle truppe pontificie e per evitare di passare per luoghi ostili, come il castello di Monteforte o la stessa città di Avellino, posta dal 1251 sotto la giurisdizione del rivale, il marchese Hohemburg.
Neppure Mercogliano, contraria alla parte sveva, pur senza trascendere ad atti di aperta ostilità, spianò la fuga del piccolo drappello, guidato dai fratelli Corrado e Marino Capece, signori di Atripalda, nobili napoletani valorosi e fedeli, feudatari di Baiano e del castello di Litto, che conoscevano bene la natura dei luoghi e l’itinerario più adatto. Trovate sbarrate le porte del poderoso castello, i fuggitivi attraverso un angusto sentiero rasente un dirupo pervennero verso le 11 a.m. ad Atripalda.
Invece Scipione Bella Bona, il più antico storico irpino, avanzando un’ipotesi poco credibile, ma seguita da altri studiosi come S.Pionati, G. Valagara e A.M. Jannacchini, fece percorrere un altro itinerario a Manfredi, il quale per sfuggire alle truppe nemiche stanziate a Monteforte, “pigliò partito drizzar il cammino per Montevergine” (“Ragguagli della città di Avellino”), dove, in cambio dello scampato pericolo, volle che fosse eretta, come una sorta di “ex voto”, la sua tomba.
Al passaggio del corteo, preannunziato dal suono solenne delle campane e dalle grida dei contadini, fece ala il popolo plaudente, desideroso di ammirare il re, “biondo, bello e di gentile aspetto”, sul cui volto corrucciato, ma non avvilito trasparivano l’imperioso cipiglio e la mai sopita fierezza. In modo opposto, a seconda della loro appartenenza alla parte guelfa o a quella ghibellina, lo giudicarono i cronisti del tempo, che mostrarono sempre un certo rispetto e una qualche ammirazione. Anche il fiorentino guelfo Giovanni Villani nella sua Cronaca (VI,46) non tacque le sue qualità descrivendolo così: “Fu bello nel corpo e, come il padre e più, dissoluto in ogni lussuria; sonatore e cantatore era;…molto fu largo e cortese e di buon dire, sicché egli era molto amato e grazioso; ma tutta la sua vita fu epicurea, non curando quasi né Iddio né Santi”.
E il castello longobardo di Truppualdo, illuminato a festa, offrì in onore dell’illustre personaggio, prode combattente e raffinato uomo di lettere, un sontuoso banchetto, cui parteciparono molti esponenti della nobiltà: Riccardo Filangieri, conte di Marsico, il conte di Sanseverino, il conte di Caserta.
E durante il lauto banchetto si compì il primo atto di galanteria in Italia. Infatti, contrariamente a quanto prescriveva il cerimoniale delle corti, che obbligava i sovrani a sedere soli senza alcun commensale che non fosse di stirpe reale, Manfredi, spirito sensibile all’amore e alla bellezza muliebre, volendo ricambiare l’ospitale accoglienza ricevuta dai fratelli Capece, non disdegnò di invitare al suo tavolo le bellissime spose dei due cavalieri atripaldesi perché pranzassero con lui. Inutili furono le resistenze delle due nobildonne di non essere all’altezza di quell’altissimo onore mai concesso prima di allora; il re svevo, per vincere la loro pudica ritrosia, come scrisse l’illustre giurista e uomo politico Pasquale Stanislao Mancini in una sua novella giovanile, quasi sconosciuta, dal titolo “Re Manfredi ad Atripalda, contenuta nell’”Album di Fabri”, affermò “I costumi dei popoli sono quelli dei loro re: noi altri italiani in faccia ai popoli del settentrione abbiamo il torto di sconoscere tuttavia le massime della galanteria e la superiorità del bel sesso, e il castello di Atripalda serberà memoria del primo atto di galanteria in Italia e sarà per le belle italiane qualche cosa di sacro”. E concluse :”Si esaltano, non si abbassano i Principi che rendono omaggio alle dame. Dopo tante tenebre non potrei trovare maggiore luce di quella che tramandano i vostri begli occhi “.
Emerge chiara in queste parole la concezione della donna vagheggiata nella siciliana corte federiciana ed esemplata sulla lirica trobadorica.
Il comportamento liberale e, per così dire, anticonformistico di Manfredi, da considerare quasi un sostenitore “ante litteram” dell’emancipazione femminile, fu confermato dallo storico svizzero
Sismonde de Sismondi, che nella “Storia delle Repubbliche italiane del Medioevo” osservò: “C’est la première fois que nous trouvons dans les historiens contemporains les maximes chèvaleresque de la galanterie, que peut- être avaient été admis plus tard in Italie dans le Nord”.
Dopo la breve, ma intensa sosta ad Atripalda, riprese il suo viaggio per Nusco, nel cui castello, appartenente al cognato, passò la notte e, dopo aver aggirato con somma cautela Guardia dei Lombardi, terra che faceva parte della contea di Andria, di dominio dell’infido marchese Bertoldo, pernottò tra grandi dimostrazioni di affetto e di gioia degli abitanti a Bisaccia, ultima tappa in territorio irpino, per poi ripartire per Lucera, dove, atteso dai soldati saraceni, giunse “il dì dei morti”. Ma le scene di giubilo dei cittadini pugliesi non riuscirono a cancellare il ricordo della cortese ospitalità di Atripalda dalla mente di Manfredi, che promise che vi sarebbe ritornato col titolo di re di tutta l’Italia; ma fu un cattivo profeta perché la fortuna volgeva ormai al tramonto e i suoi sogni furono infranti il 26 febbraio 1266 da Carlo d’Angiò, chiamato nella penisola dal papa Clemente IV, “in co del ponte presso a Benevento”.

Da pagine di Storia civile di Padre Bernardino Santosuosso - Montecalvo Irpino - 1913

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