Rione Serra intitolato a Cristino
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- Categoria: Cultura
- Pubblicato: Venerdì, 10 Maggio 2013 12:06
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L’ex rione Serra di Montecalvo Irpino sarà dedicato al farmacista Pietro Cristino, il primo sindaco di Montecalvo Irpino.
Lo ha deciso la giunta esecutiva guidata dal sindaco Carlo Pizzillo.
Il dottore Cristino fu commissario civico dal giugno del 1944 al 6 aprile del 1946; Parlare di Giuseppe e Pietro Cristino, oggi, nell’epoca del crollo delle ideologie, dopo l’implosione dei regimi totalitari dell’Est europeo, ma anche di guerre sanguinose – basti pensare a quella del Golfo Persico e all’altra tra le nazioni dell’ex Iugoslavia – che sicuramente hanno trovato una concausa nel crollo del Muro di Berlino del 1989,che ha segnato la fine della guerra fredda e dei blocchi contrapposti, guidati dalla fine della seconda guerra mondiale rispettivamente da USA ed URSS, potrebbe anche significare andare ad indagare fatti, persone e vicende del Novecento, la cui storia, oltre che non sempre ripercorsa e chiarita adeguatamente e a sufficienza, ci appare distante anni luce.
E proprio tale distanza consente che tanti personaggi di primo piano, che hanno fatto la storia civile e sociale del nostro paese, possano essere spesso posti in discussione per le scelte politiche fatte e per il loro operato nel secondo dopoguerra, in quanto hanno contribuito, seppure indirettamente, a quel sistema politico nazionale bloccato, rimasto senza alternativa. Si è parlato e si parla anche di democrazia incompiuta. La realtà è che per più di quaranta anni ci hanno governato più o meno le stesse persone, realizzando – caso unico tra i paesi occidentali – una sorta di “dittatura” in democrazia, che ha determinato conseguenze assai gravi: invecchiamento e inefficienza delle Istituzioni pubbliche; alcuni fenomeni gravi di collusione tra politica e criminalità organizzata; intere regioni alla mercé di mafia, ‘ndrangheta o camorra che insanguinano il Sud sostituendosi allo Stato come se questo avesse rinunciato alle proprie funzioni; malcostume diffuso della pratica del pizzo e della bustarella per cui, sempre più spesso, la cronaca nera è ricca di casi di burocrati e amministratori locali divenuti essi stessi, in prima persona, i gestori del malaffare. È il “diritto negato” ad alimentare spesso faide tra i malavitosi e comportamenti omertosi anche tra i cittadini. I partiti politici si sono trasformati in qualcosa di diverso da ciò che erano originariamente: da strumenti di democrazia sono diventati organizzazioni di potere. Tuttavia pare che ora qualcosa cominci a cambiare e fasce non trascurabili della popolazione non sono più disposte a concedere la propria delega in bianco ai politici, portati sempre più ad anteporre gli interessi particolari, di pochi privilegiati, all’interesse generale della collettività.
I problemi sono tanti. Da locali o nazionali che erano, sono divenuti di portata planetaria. Non sarà di certo la logica delle lobby, delle multinazionali e della propensione al consumismo a prospettare le soluzioni più eque o più giuste per la nostra società.
Giuseppe Cristino, nato a Montecalvo Irpino il 17 maggio 1918, con la Grande guerra ancora in atto e il fascismo che avrebbe preso il potere di lì a quattro anni, non sarebbe stato in grado di immaginare i mutamenti e le involuzioni della nostra società. A dire il vero nemmeno noi siamo in grado di prevedere, dove ci porteranno le “esternazioni e picconate” che da qualche tempo caratterizzano il sistema di potere in Italia.
Resto ammirato di fronte alla produzione poetica, artistica e antropologica di Angelo (all’anagrafe Angelomaria) Siciliano, nato a Montecalvo nel 1946, e che, da una vita ormai, ha abbandonato con il “corpo” l’Irpinia. Nel 1965, infatti, aveva preso la strada per Napoli, in attesa di laurearsi alla “Federico II” in economia, poi il servizio militare, e dal 1973 si è trasferito a Trento, dove ha insegnato negli Istituti superiori e tutt’ora vive con la sua famiglia. Egli appartiene, dunque, pienamente a quelli che abbiamo definito i “poeti della diaspora”. Del resto, lo stesso Siciliano, nella “Premessa” ad un fascicolo autoprodotto ed edito in quindici copie nel 2010, scrive: “Pur vivendo a Trento dal 1973, idealmente non mi sono mai separato dalla mia terra natale, Montecalvo e l’Irpinia. Solido permane il senso d’appartenenza alla civiltà mediterranea”. Detto questo, occorre anche un’altra precisazione. Il percorso intellettuale e umano di Angelo Siciliano è così ricco, che non può essere sintetizzato in poche formule, e così, pur essendo poeta brillante in lingua, oltre che pittore sperimentale da sempre, ho voluto privilegiare una lettura “dialettale” per uno straordinario libro di cui parlerò a breve. La sua esperienza intellettuale ha inizio con Versi biologici (1977), cui seguono le poesie di Tra l’albero di Giuda e quello del Perdono (1987). Sono due raccolte di componimenti in italiano, che dimostrano un’eleganza e un’ispirazione non comuni, che richiamano alla memoria la migliore produzione dei poeti del Sud, da Scotellaro ad Alfonso Gatto, per arrivare agli autori della nostra Irpinia. Ed ecco alcuni versi di un canto straordinario tratto dalla seconda plaquette: “Il Sud non è morto. Ancora no! / Lo affermiamo, noi della diaspora. / Riponete, i funebri paramenti, / ricacciate le Arpie, / non vengano ancelle dolenti, / non preparate vettovaglie:/ il consòlo non è per questi tempi” (da “Il Sud non è morto”). La poesia meridionalista di Angelo Siciliano si fa, inoltre, civile in altri componimenti, in cui si racconta l’emigrazione degli uomini del Sud, le stragi nere, la corruzione e l’impotenza della politica, la distruzione della natura, la guerra imperialistica, la giustizia che è deficitaria, la crisi delle idee, l’ingiustizia sociale. Un omaggio bellissimo è ai contadini del Sud, alle madri contadine, alla propria madre e al proprio padre, presente in queste raccolte e dunque negli altri volumi, le antologie poetiche cui ha collaborato (Controparole, 1993; Tempi moderni, 2001; Fermenti, 2004; Antologia italiana, 2006), le raccolte edite e i fascicoli autoprodotti, con poesie in italiano e in dialetto montecalvese (Dediche, raccolta poetica, 1994; Trittico dell’abbondanza, fascicolo, 2004; Munticàlivu ‘mpónt’a lu siérru, fascicolo, 2006; Trilogia dell’abbandono, fascicolo, 2006; Versi famigliari, fascicolo, 2010), soprattutto un capolavoro nel suo genere, che è “Lo zio d’America. Poesie, cunti, nenie, ballate e detti in dialetto irpino, di Montecalvo Irpino (Av) con una raccolta di maledizioni – illustrazioni d’autore”, Prefazione di Mario Sorrentino, Casa Editrice Menna, Avellino, 1988. Tra l’altro, questa pubblicata è solo una parte della produzione culturale quarantennale di Angelo Siciliano, come chiarisce in una lettera privata inviatami da Zell (Trento) il 12 novembre 2010: “Avrei pronte 3-4 raccolte in lingua, mentre in vernacolo irpino sono 10-12 i libri pubblicabili”. Dunque, un posto rilevante, ma non esclusivo, è occupato dalla produzione dialettale, che trova la prima opera matura e probabilmente più organica nel citato Lo zio d’America. L’obiettivo di Siciliano era, appunto, di recuperare la memoria, in modo per così dire filologico, cioè riportando alla luce non solo la civiltà contadina, ma anche la lingua di questi uomini, che ha subito un mutamento e un declino irreversibile a partire dagli anni Sessanta. Accanto ai versi propriamente legati al mondo contadino, alcuni dei componimenti presenti nel libro sono anche un tentativo di scrivere “versi moderni dialettali” e, aggiunge lo scrittore, “anche se essi paiono in stretta relazione con la mia poesia in lingua, mi auguro possano essere considerati un modo di come il dialetto irpino può rendere forma e contenuti ispirati alla vita di oggi” (dalla “Premessa”, 14). Mario Sorrentino individua nell’Introduzione tre sezioni differenti, la prima, di “rievocazione elegiaca”, la seconda, “lirica”, la terza, “civile” – per la quale opportunamente richiama Scotellaro e Silone –, e analizza accuratamente la metrica, parlando a proposito “di narrazioni in prosa ritmica scandite da pause logico-sintattiche (paralleli illustri sono la prosodia epica germanica – ma quella è allitterativa – e russa – non allitterativa, quindi maggiormente somigliante)” (p. 9). Lo zio d’America racconta, dunque, in “prosa ritmica” un’epopea popolare dei cittadini di Montecalvo come di tutti i meridionali, e quindi l’emigrazione a partire dalla fine dell’Ottocento (condensata nella prima sezione “L’emigrazione e il contesto complessivo”), gli affetti, la morte, il mondo religioso e “magico” (“Canti funebri, religione, magia, miti, detti e malisintenzie”), e quindi argomenti di maggiore impegno sociale (“Proiezioni possibili: ballate, liriche e poesie civili”). Tra le più toccanti della raccolta si segnalano “Cantu dulurosu” (“Canto doloroso”), “Com’agghja fa, tatillu miu” (“Come farò, padre mio”), “Figliu miju, tisoru miju” (“Figlio mio, tesoro mio”), o ancora colpiscono per efficacia le poesie dedicate agli emigranti in Svizzera, al padre, al nonno, alla madre, alle madri del Sud. Ecco alcuni versi: “T’addummànnunu di quiddru / figliu luntanu, e tu / mancu ti piénzi, / ca pur’iddru téne nu panaru / chjìnu di frutti / ca so’ bèll’a bidéni, / ma so’ amari” (“Ti domandano di quel / figlio lontano, e tu / neanche ti immagini, / che pure lui ha un paniere / pieno di frutti / che sono belli a vedere, / ma sono amari”, da “Ohji ma’” = “Ohi ma’”, con temi che fanno pensare ad Antonio La Penna); “Pàtrimu” (“Padre mio”), che sembra richiamare analoghe poesie di Rocco Scotellaro, “Na mamma di lu Sud” (“Una madre del Sud”), che rimanda alla mente un poemetto struggente di Giuseppe Saggese. Ecco l’incipit di questa poesia: “T’abbalisci ‘nd’à ‘ssi ttèrre! / Chi ti lu ffà ffà! / T’accìdi l’àlima. Mancu si tinissi / figlie ancora da mmaritàni!” (“Patisci in coteste terre! / Chi te lo fa fare! / Tu uccidi la tua anima. Neanche avessi / figlie ancora da maritare!”). In questi componimenti, come negli altri in italiano, vi è il segno di una grande testimonianza per un Sud che appare “maledetto” e che non vuole morire, che non deve morire, che deve reagire. Quest’opera è il frutto di una dolorosa diaspora, di un “tradimento” – il leitmotiv degli intellettuali sradicati fuggiti al Nord – nei confronti dei padri, delle madri, della terra, è il frutto di uno sradicamento che seppure ha prodotto una vita ricca di soddisfazioni personali e intellettuali, tuttavia non ha sanato una mancanza nostalgica. Angelo Siciliano, con il grande “monumento” che ha innalzato, un tributo d’amore alla sua terra d’Irpinia, dimostra di essere rimasto qui con il cuore, spesso anche con la mente. Le sue idee, i suoi sogni, le sue emozioni rivivono qui come a Trento e dimostrano che siamo sotto lo stesso cielo, uomini in attesa di un mondo migliore che non rinneghi il passato. * Paolo Saggese, critico letterario, sta scrivendo la Storia della poesia irpina in più volumi. È fondatore e animatore del CDPS (Centro di Documentazione sulla poesia del Sud) creato a Nusco nel 2004, la cui voce è la rivista Poesia Meridiana – Spazi e luoghi letterari per i Paesi Mediterranei e per i sud del mondo. (Questo testo, uscito sul quotidiano Ottopagine di Avellino il 19 gennaio 2011, è nel sitohttp://www.angelosiciliano.com).{jcomments on}
Dell’Irpinia, assai arretrata e depressa d’inizio secolo, poco o nulla permane nella memoria collettiva. Guido Dorso, nel 1915, ne faceva un quadro tutt’altro che esaltante. Le lotte politiche provinciali, caratterizzate da intimidazioni e sopraffazioni, trovavano fertile terreno nelle condizioni di servilismo diffuso. L’Irpinia era già allora regno dell’affarismo e del trasformismo, e l’arte della mediazione e della demagogia serviva soprattutto all’interesse generale della borghesia. A ben vedere, però, nel secondo dopoguerra il quadro generale provinciale non è parso cambiato di molto rispetto al periodo tra le due guerre.
Il potere locale era gestito con strumenti conservatori e antiprogressisti. I nobili erano ormai stati soppiantati dai professionisti – medici, avvocati, ingegneri ecc. – e dai burocrati che andavano costituendo un nuovo ceto d’arrampicatori sociali fortemente politicizzato.
Il censimento del 1921 rilevava l’arretratezza economica irpina: il 79,20% della popolazione attiva era impegnata nell’agricoltura; solo il 14% lavorava nell’industria e nei trasporti; appena dieci erano le imprese con più di cinquanta addetti.
La polverizzazione delle imprese caratterizzava tutti i settori economici provinciali. I lavoratori prestavano la propria opera in condizioni di sfruttamento, con strumenti antiquati, salari bassissimi e nella pressoché generale inosservanza delle norme previdenziali e antinfortunistiche.
Il censimento del 1931 vedeva scendere l’occupazione nel settore agricolo al 71%, ma permaneva l’estrema arretratezza delle tecniche produttive in agricoltura. Oltre alla crescita degli addetti nei settori dell’industria e del commercio, si registrava il raddoppiamento della popolazione scolastica (24.301 alunni), rispetto al 1921, anche se non poteva essere cancellato l’analfabetismo.
L’emigrazione di massa, con destinazione transoceanica, s’interrompeva durante il ventennio fascista, ma sarebbe ripresa in modo massiccio negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, privilegiando i paesi europei.
Questo, in breve sintesi, lo scenario in cui Pietro Cristino (1882 – 1962), farmacista montecalvese e padre di Giuseppe, prima socialriformista e poi socialista dal 1924, dopo l’avvento del fascismo nel 1922, fece le sue scelte politiche ed operò in opposizione al regime. Sottoposto a restrizioni severe delle libertà personali, a seguito della “ammonizione” della Questura, motivata dalla sua accertata attività sovversiva, egli sopportò con dignità ogni vessazione, compreso un breve arresto cautelare, in occasione delle nozze di S.A.R. il Principe Ereditario, celebrate il 12 gennaio 1930. Intransigente oppositore del regime, divenne soprattutto un punto di riferimento morale per gli antifascisti montecalvesi e quelli dei comuni vicini, perché col tempo ogni forma d’azione politica gli era impedita con ispezioni e controlli rigorosi di polizia. Sarebbe stato il primo sindaco democraticamente eletto nel 1946, in un comune, Montecalvo Irpino, dove mai si era sopito lo spirito democratico e antifascista. Gli ultimi anni della sua vita li avrebbe trascorsi seduto e silenzioso su una sedia, a causa di una paralisi che l’aveva colpito. Il figlio Giuseppe assistette alle vicende paterne maturando una spontanea e autonoma formazione politica, caratterizzata da una precoce opposizione alla dittatura fascista, non rivelata ad alcuno. A Napoli, dove per motivi di studio s’era trasferito con la madre e i fratelli, nel 1938 decise di espatriare per partecipare alla guerra civile spagnola. A Parigi, dov’era giunto con pochi risparmi, grazie ad un finto viaggio turistico, entrò in contatto con altri antifascisti e si arruolò nelle Brigate Internazionali.Entrato clandestinamente in Spagna, combatté nella Brigata Garibaldi in difesa della Repubblica spagnola. Fatto prigioniero dai franchisti, fu internato in un campo di concentramento dove morì, presso Burgos, il 20 agosto 1941, stroncato da un’epidemia di tifo. Comunque, se fosse sopravvissuto, l’avrebbero consegnato allo Stato italiano, il che sarebbe equivalso probabilmente alla sua condanna a morte, giacché nel 1939 erano avvenute fucilazioni, per ordine dello stesso Mussolini, di antifascisti italiani catturati in Spagna.
Ad onor di cronaca va riferito che da Montecalvo era partito per la Spagna anche qualche volontario, arruolato dal regime, per combattere a fianco delle falangi franchiste. Relativamente ad uno di questi volontari, si raccontava che sua moglie, con le rimesse ricevute dal marito combattente in Spagna, si era comprato un appezzamento di terra intestandolo al proprio nome (Lu marìtu ha gghhjut’a pparà li ppaddròttil’a la Spagna e la mugliére, cu la pava ca iddru l’ave mmannàtu, s’av’accattàtu la terr’a ppiéttu suju!).
Era di conforto per Pietro Cristino, sopravvissuto al figlio per ventuno anni, il sapere che Giuseppe si era sacrificato per il suo ideale di libertà.
Padre e figlio, dunque, erano accomunati nei loro ideali di democrazia e la loro storia andrebbe fatta conoscere ai giovani. Però, quasi fossero dei personaggi scomodi o ingombranti, Montecalvo ha scelto il silenzio. Ma un paese che si scorda dei figli migliori, a prescindere dal colore politico d’appartenenza, è un paese senza storia, che non possiede alcunché da insegnare ai giovani e tramandare ai posteri.
(Testo inedito, scritto a Zell (TN), il 10 dic. 1991, per ricordare il cinquantenario della morte di Giuseppe Cristino).
Angelo Siciliano{jcomments on}