Gli ultimi abitanti del Trappeto
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- Categoria: Cultura
- Pubblicato: Mercoledì, 03 Settembre 2014 09:55
- Scritto da Angelo Siciliano
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Il Trappeto perse la sua identità etnica, non tanto per l’emigrazione di molti suoi giovani, ma a causa del terremoto del 1962, che comportò la ricostruzione delle case delle famiglie che vi abitavano, in nuove e lontane aree edificabili indicate dall’amministrazione comunale.
Così, quell’abbandono, anche se case, grotte e cantine rimasero agibili per lungo tempo, ha determinato negli anni l’inizio di crolli sparsi di edifici, che fa paventare in tempi non lunghi la sua sparizione come agglomerato urbano.
Forse si salveranno i tracciati delle strade e resteranno qui e là cumuli di macerie, “li mmurrécini”, e le grotte, enormi cavità orbitali vuote invase da alberi e sterpaglie. Guardando gli altri paesi, non si capisce se a Montecalvo si sarebbero potute fare scelte diverse.
Ariano Irpino, dopo i terremoti, ha sempre dato la priorità al recupero degli edifici storici e poi anche alle case della parte vecchia della città.
A Montecalvo, il centro storico è pressoché disabitato. Tanti edifici storici si preferì abbatterli in fretta e furia, e ricostruirli in modo anonimo anziché ripararli. Ritardi nei progetti, inghippi burocratici e nei finanziamenti hanno reso l’intero paese una realtà diversa dal passato, senza un’identità architettonica e urbanistica.
Il Trappeto, da est a ovest, compreso tra il Chiassetto Caccese e Via Dietro Carmine, era abitato nei secoli passati e tanti vi ebbero i natali. Lo attestano i registri antichi dell’archivio dell’anagrafe comunale. Accolse alcune famiglie di zingari, il cui cognome era Schiavone, e col tempo esse furono assimilate e i loro membri diventarono ciucai e contadini.
Dopo i crolli provocati dai terremoti veniva ricostruito, ma l’evento più drammatico fu la peste del 1656, che a Montecalvo fece oltre 2000 vittime su una popolazione di circa 3600 abitanti. Anche il Trappeto ne uscì falcidiato, ma accolse i pochi abitanti sopravvissuti del feudo di Corsano.
Una via di rilievo è Via Angelo Cammisa, nome di un concittadino illustre, che nel 1480 era funzionario di re Ferdinando I d’Aragona.
Il Trappeto è stato sempre il luogo più riparato e caldo del paese, “sta a lu rrimóte”, perché esposto al favonio, “favùgnu”, vento caldo e umido, mentre il resto del paese è esposto alla bora gelida.
Il ritrovamento di una tomba dell’Età del Bronzo nella località confinante Imbergoli, “a li ‘Mbriévuli”, nel 1985, e in seguito di manufatti in pietra come asce a mano o immanicate, nei terreni coltivi che scendono verso la Ripa della Conca, fa ipotizzare che, probabilmente, anche il Trappeto, data la sua posizione favorevole e la facilità con cui i suoi strati di tufo o arenaria si scavano per ricavarne grotte, era abitato sin dalla preistoria.
E cosa dire della gente che l’amico Mario Sorrentino andava fotografando, 40-50 anni fa, tra le case del Trappeto? Si tratta di persone colte in momenti di vita quotidiana, anche lavorativa. Alcune, la foto se l’aspettano, perché preavvisate, altre sono immortalate in un momento di distrazione. Tutte persone che i nati nel secondo dopoguerra conoscevano per nome e soprannome. Ecco alcuni soprannomi delle persone nelle foto: Apuóstulu, lu Stròlicu, lu Zìnguru, Vavóne, Vulipètta. Era questo un aspetto dell’onomastica che, assieme al dialetto, costituiva una ricchezza e una varietà linguistica e lessicale, che si sono andate perdendo in questi ultimi anni. E tale fenomeno ha trovato il consenso di chi pensava che l’uso del soprannome fosse qualcosa di fastidioso o addirittura offensivo. Ciò è innegabile, quando il soprannome appioppato a una persona serviva a ridicolizzarla agli occhi della comunità. Ma, in certi casi, alcuni soprannomi potevano essere gentili (lu Bèllu), neutri, se derivanti dal cognome (Piccìnu, Ruscilìllu – da Piccinno e Russolillo), o addirittura gradevoli (Bèllu gióvine). Se è comprensibile e accettabile la scomparsa dei soprannomi, quella del dialetto è un impoverimento grave. Basti pensare in quanti modi si potevano chiamare i mestieri e chi li svolgeva, gli strumenti di lavoro, i cicli lavorativi. E poi era la lingua degli affetti. Si può dire che con la modernità, il nostro pensiero non ci ha guadagnato, anzi si è molto impoverito.
La consapevolezza della perdita del Trappeto e della sua memoria, che in parte le foto della mostra cercano di rammentarci e restituirci, ci porta a rivivere e a ricordare quel luogo idealizzandolo, come qualcosa di mitico. Ma i suoi abitanti faticavano duramente per campare o sopravvivere.{jcomments on}
Zell, 4 agosto 2013 Angelo Siciliano
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